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Rubrica per quelli che credono che i dettagli facciano la differenza, ma non hanno capito l'argomento principale.

12. DI QUEL CAZZO DI RITARDO COGNITIVO

di:

Il piacere di scrivere quello che vuoi, passa dalla consapevolezza che meno interesserà a qualcuno e più avrai la possibilità di dare conto soltanto a te stesso. “Bello!”, dirai. Me lo sono detto pure io la prima volta che l’ho letto, giusto una riga fa. Ma dentro di me albergano così tanti critici che devo stare attento ad ogni parola che scrivo altrimenti succede un bordello: conflitti di disinteresse; turnazioni scombinate; assenze ingiustificate; presenze discutibili; amici amici, amici un cazzo (Amici Miei, 1975 regia di Mario Monicelli).

Viviamo il nostro tempo fottendocene dei tempi dell’usucapione, ci impossessiamo di un tutto e subito che non rende giustizia alla pazienza di chi ha raccolto e poi fatto la cernita di ogni singolo granello di sabbia contenuto nella clessidra che consideriamo soltanto come un complemento d’arredo nella scansione approssimativa degli oggetti che ci circondano e del loro valore e degli oggetti che ci mancano e del loro valore (come nella scena di Fight Club, 1999, regia di David Fincher).

L’intossicazione da informazione è inarrestabile nonostante in giro sia pieno di sbirri. L’intossicazione da informazione è inarrestabile nonostante in giro sia pieno di sbirri. Le soffiate alla Manomozza (Piedone lo Sbirro, 1973, regia di Steno) giocano sporco sullo sporco confermando che esiste lo sporco impossibile.

Negli attimi in cui allunghiamo lo sguardo oltre il nostro naso siamo sopraffatti dalla sensazione che qualcuno ci stia rubando qualcosa. Ci chiudiamo in casa da prima ancora che ce lo consigliassero per il nostro bene. La nostra cuccia è così confortevole e nostra da metterci in mostra per quello che siamo. Mostriamo guinzagli e non ce ne pentiamo. Rapiamo concetti e li disinneschiamo appropriandoci della confezione che è sempre più vacante, puoi soppesarla se sei abbastanza sensibile. Sfidiamo la sorte, il consorte, la morte e la resurrezione. “Sei forte papà!” (detto con la faccia di Gesù e la voce del brano del 1976 di quel tizio bolognese simpaticissimo che mi ricorda sempre tanto Mino Reitano). Diamo quotidianamente manforte a chi pensa che la fine del mondo non sia tutto sommato la soluzione peggiore (Don’t Look Up, 2021, regia di Adam McKay).

Bussiamo a ogni porta senza aspettare la risposta e non riusciamo a percepire la connessione tra le due cose. Non ci diamo il tempo di capire cosa cazzo stia succedendo perché abbiamo deciso quella cosa di prima della clessidra. I più intelligenti non si fidano di loro stessi, non per niente sono i più intelligenti. Hanno una cassaforte e ci rinchiudono il cuore. Hanno una cassa toracica dentro la quale custodiscono la chiave inghiottita. Hanno una cassa da morto prenotata dagli amici loro. Al funerale, un angelico coro ci racconta la favola in cui se ci fosse un Dio avrebbe la fronte madida di sudore al solo pensiero di consideraci figli allo sbaraglio con una certa fascinazione per l’errore. Per fortuna sua dobbiamo pensarci noi, col nostro cazzo di ritardo cognitivo e sempre meno parole per poterlo descrivere.

Il piacere di scrivere quello che vuoi, passa dalla consapevolezza che meno interesserà a qualcuno e più avrai la possibilità di dare conto soltanto a te stesso. Per fortuna nostra abbiamo optato per il disinteresse freudiano secondo cui “Così come si provocano o si esagerano i dolori dando loro importanza, nello stesso modo questi scompaiono quando se ne distoglie l’attenzione”.