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Rubrica per quelli che credono che i dettagli facciano la differenza, ma non hanno capito l'argomento principale.

02. DELLA FAME

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Da qualche tempo mi capita di pensare alla miriade di programmi televisivi dedicati ai cuochi. All’esponenziale crescita mediatica che negli ultimi anni ha coinvolto qualunque cosa abbia a che fare con i fornelli e la destrezza di chi prova a muoversi tra innovazione e riscoperta della tradizioni, che in cucina fanno sempre la loro porca figura, rilanciando con qualcosa in più che il tempo e la globalizzazione ci hanno permesso di avere a portata di mano, in ogni momento dell’anno. ‘Fanculo la stagionalità, è il futuro car* mi*.

Da qualche tempo mi capita di pensare al periodo storico in cui questo è accaduto, in cui questo sta accadendo: l’epoca della crisi che ha ridotto il popolo alla fame. Mettere insieme i pezzi non mi è mai convenuto e non l’ho mai fatto prima di oggi. Non lo farò nemmeno oggi perché i puzzle mi snervano e non è poi così bello rendersi conto che ti stanno prendendo per il culo. Mi accontento di sentire sulla lingua il dolce sapore dell’importanza di averne sentore, di masticare lentamente la voglia di guardarsi da chi sta provando e rovinarti i piani senza tirarla troppo per le lunghe.

Poi viene fuori una serata in cui ti imbatti nel film IL BUCO, (2019, regia di Galder Gaztelu-Urrutia) e, a prescindere dal fatto che la panna cotta possa essere o meno il messaggio, ti ritrovi di fronte ad un mondo piramidale talmente attinente alle dinamiche sociali che farebbe tremare i polsi anche ai più ferventi terrapiattisti. L’incedere del comodo disagio nel film è così lineare da rendere tutto comprensibile anche ai più duri di comprendonio, anche a quelli che avrebbero già dovuto capire il movimento di certe dinamiche da tempo e tempo.

Di quelli che si meravigliano potrei anche non dire, ma in realtà credo sia doveroso riconoscer loro la disponibilità a meravigliarsi, che in un certo qual modo li pone un gradino sopra i muli. Le scale gerarchiche, il posizionamento sociale, la domanda, l’offerta e la fame sono qui i motivi narrativi che esplodono all’interno di questo buco che è benessere in cattività. Nello zoo umano che pascola alla ricerca di sostentamento, il saggio punta al vassoio ascensore, pieno di cibo, che sarebbe sufficiente per soddisfare tutte le bestie lì rinchiuse mentre lo stolto guarda al fatto che non gli è arrivato niente da mangiare e per non soccombere è disposto anche a uccidere. Mors tua, vita mea.

In questo caso l’affinità meramente linguistica del gioco di parole tra il “mors” (morte) e il morsO si porta dietro anche l’inquietudine di quella “O”, che è un buco. Che è la famelica bocca della verità che ci ricorda che ci fagocita tutti, uno alla volta. “Scusami ma ti vedo più come la pietanza di un banchetto di carne, con contorno verde e condimento gocciato di insana accozzaglia di potere impreziosito e una spolverata di egoismo d’antan servito su un letto di rucola impiattato su ceramica di progressismo un tanto al chilo tipico degli allevamenti intensivi, ahi noi, necessari al giorno d’oggi per provare a sfamarvi tutti”.

Da qualche tempo mi capita di pensare a tutti quei cuochi in TV, a tutti quei canali tematici, alla precisione con la quale vengono eseguite le procedure per realizzare piatti buonissimi che non assaggeremo mai perché non ci arriverà niente perché, dai, non è roba per noi. Noi uomini in cattività ammantati di una patina di buonismo inodore e insapore che solo a sentirne parlare ti vien voglia di far un sol boccone di questi aspiranti suicidi, accondiscendenti dentro la loro gabbia di leoni.

Poi mi ricordo di “quello” che secondo la leggenda si offriva in pasto per noi.

Poi mi ricordo di quando da ragazzino vidi per la prima volta LA GRANDE ABBUFFATA (1973, regia di Marco Ferreri) e mi si chiude lo stomaco e prendo del ghiaccio e mi preparo un bicchiere.