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Rubrica per quelli che credono che i dettagli facciano la differenza, ma non hanno capito l'argomento principale.

03. DELL’INCOMPIUTEZZA

di:

Non mi è mai piaciuto dare per certo alcune cose delle quali sono certissimo, figuriamoci se mi interessa poter dare per certo qualcosa che poggia sulla “fede” le proprie fondamenta. La polemica sterile non c’entra niente, sia chiaro che non c’è niente di sterile quando l’argomento che hai tra le mani è così complesso, così ramificato.

Mi piace di più immaginare che si possa pascolare nel grande prato del ragionamento e dal ragionamento non arrivare da nessuna parte ma arrivarci con qualche elemento in più da custodire nella saccoccia cerebrale annacquandolo tra le materie grigie che (che te lo dico a fare!) sono il risultato del grande incontro tra il bianco e il nero. Un bianco e un nero in cui c’è tutto. Yin e Yang in dotazione, se solo ci prendessimo il disturbo di pensarci. Chiamalo pure “amor proprio”, senza presunzione, ché degli egoismi potremmo farne bene a meno.

Quel pomeriggio estivo in cui andai al cinema per vedere L’ORA DI RELIGIONE – Il sorriso di mia madre (ITA, 2002, regia di Marco Bellocchio) lo ricordo bene, in sala eravamo in cinque: io, una coppia di ragazzetti che sapeva qualcosa che io non sapevo e ne aveva approfittato per appartarsi lontano da occhi indiscreti, e una coppia di vecchietti che (l’ho intuito subito e ne ho avuto conferma nel momento topico del film) aveva sbagliato film.

Ernesto Picciafuoco, un disincantato Sergio Castellitto, si ritrova a muoversi tra le maglie ipocrite del processo di beatificazione della madre, assassinata dal fratello pazzo che lei stessa ha perdonato in punto di morte. Perdono che assieme alla falsa verità dell’esperienza di un miracolato, nel progetto di Zia Maria è sufficiente per imbastire le impervie pratiche vaticane sulla strada della santità: “Ma tu lo sai cosa vuol dire avere un santo in famiglia? Pensa a tuo figlio!”.

I ritmi pacati del film riproducono bene quella sensazione sospesa tra la realtà artistica e atea di Ernesto e la rigorosa formalità ecclesiastica. Aleggia l’assenza di qualcosa, c’è sempre qualcosa che non quadra e che sembra tornare nel momento in cui Ernesto che ha “lo stesso sorriso di tua madre”, si ritrova a di fronte all’ennesima assurdità e sorride beffardo all’ipocrisia capace di concretizzare anche ciò che non è e che non può essere.

Ma manca ancora qualcosa. Manca sempre qualcosa. C’è un grande abbraccio dei fratelli presso la clinica in cui Egidio sconta la detenzione e bestemmia in faccia ai prelati (ecco ora il sussulto dei due vecchietti che hanno capito di aver sbagliato film).

Ma manca sempre qualcosa. L’incompiutezza di un sentire, e di un sentore, divino che nel film riecheggia dalla voce di Diana Sereni, l’insegnante di religione del figlio di Ernesto, che recita la poesia È FUGGITA L’ESTATE di Arsenij Tarkovskij: È fuggita l’estate, più nulla rimane. Si sta bene al sole.

Eppur questo non basta. Quel che poteva essere una foglia dalle cinque punte mi si è posata sulla mano.

Eppur questo non basta. Né il bene né il male sono passati invano, tutto era chiaro e luminoso.

Eppur questo non basta. La vita mi prendeva, sotto l’ala mi proteggeva, mi salvava, ero davvero fortunato.

Eppur questo non basta. Non sono bruciate le foglie, non si sono spezzati i rami… Il giorno è terso come cristallo.

Eppur questo non basta. Non basta mai. Manca sempre qualcosa. Il bello della compiutezza è proprio questa mancanza. E poi, a dirla bene, noi bravi mortali possiamo considerare “compiuto” il nostro ruolo di vivi solo una con l’arrivo della morte. Anche se manca sempre qualcosa. Anche se manca Dio.