Rubrica per quelli che credono che i dettagli facciano la differenza, ma non hanno capito l'argomento principale.
Eccoci nel nuovo anno. Un nuovo anno spropositatamente attivo per chi non ha mai smesso di fottersene degli anni, per chi parla al presente adottando una consecutio temporum tanto invidiabile quanto inopportuna alle orecchie di chi gioca a fare confusione, per chi ha digiunato pensando che la preghiera e il digiuno siano opere da offrire disgiunte, per chi crede al sacrificio umano (Apocalypto, 2006, regia di Mel Gibson), per chi si immola, per chi si ammala, per chi sentito dire delle cose, per chi è guarito del tutto, per chi ha due birrette in frigo, per chi è ora, per chi ha qualcosa da mangiare anche per domani, per chi almeno una volta nella sua vita ha rapinato un negozietto con in testa i collant a fiori, per chi ha sempre poca fame e anche per chi ha 7 spose e 6 fratelli (1955, regia di Stanley Donen). Un nuovo anno particolarmente interessante per i rapinatori di ricordi, hanno tutti gli stessi nomi, facci caso. Hanno tutti nomi in cui al codice RAP, facci caso, aggiungono una lettera come i Man in Black (1997, regia di Barry Sonnenfeld).
Dove sta la fregatura? La fregatura è che non sognano quasi più e cercano di appropriarsi dei sogni degli altri. In maniera vile li accumulano, li accomunano, ne fanno spremute dalle quali ne esce un composto uniforme imbevibile ma grazie agli sponsor dell’operazione riescono nel loro intento di appiattire anche l’immaginario. Si intrufolano come nemmeno Freddy Krueger (Nightmare, regia di Wes Craven) è stato capace di fare perché lui, almeno lui, è concentrato su un fine altro. E alla fine rimangono lì a godersi il panorama, senza alcuna necessità, forse anche senza averne voglia, di sognare in proprio. Un nuovo anno che per alcuni è anche un nuovo danno.
Sulla bilancia del dare e dell’avere i pesi piuma affrontano spavaldi i pesi massimi e lo fanno bene. Il peso specifico ha tutto il diritto di rivendicare il proprio posto in prima fila per godere del divenire in cui, giocoforza, siamo chiamati a dar delle risposte nella misura esatta degli strumenti a nostra disposizione per poter dare risposte di senso compiuto. Il compito è arduo, le attenuanti sono generiche, le elusioni sono comiche. Le intrusioni nelle vite comuni diventano astronomie da combattere a denti stretti tenendo ben ferma la barra della capsula che ci contiene, come ci hanno insegnato a fare i grandi navigatori nei momenti di mare in tempesta. La siesta è finita, andremo al macero con vestiti sartoriali su misura per non sfigurare agli occhi del fotografo e dei guardoni che nel giorno del funerale non avranno di meglio a cui pensare, beati loro.
Un nuovo anno nuovo che puzza di muffa. Gli inquilini precedenti li ho conosciuti, erano delle care persone ma, rimasti alle strette, hanno deciso di far largo ai nuovi inquilini che siamo io e te. Io e te. E magari quell’amica tua che sicuramente ce la farà. E non fa niente se non sappiamo un cazzo, non è quello il punto della questione.
Il sapere si è defilato per cercare aria pulita, serve respirare, ossigenare, inspirare ed espirare. Inspirare ed espirare. L’ispirazione e l’aspirazione continuano ad ingolosire i dislessici e le loro insegnanti di sostegno. Il monte dei pegni ha chiuso i battenti. Il ritegno ha smesso di essere considerato qualcosa di considerabile grazie alla clausola dell’impunità. E l’impunità costa giusto il prezzo dei ricordi da rendere visibili e condivisibili, conditi al meglio per diete digitali a base di pixel e colori ultradefiniti. La fame del mondo è gestita da buoni pasto validi solo per i commestibili. Il resto è accessorio, non è necessario. La definizione del mondo è fatica. L’assuefazione al mondo è finta. La dislocazione temporale in atto è in mano a ditte di traslochi gestite da orde di formiche che cantano in coro insulti a quelle merde delle cicale. La definizione del mondo frinisce qui.
Immagine di copertina di Mirko Iannicelli.