...

Rubrica per quelli che credono che i dettagli facciano la differenza, ma non hanno capito l'argomento principale.

07. DELLA GUERRA

di:

Ci sono ricascato. Evito con una certa signorilità dietro la quale nascondo la rabbia che mi assale quando mi capita di vedere o rivedere i film di guerra. Credo da sempre che i film di guerra dovrebbero servire per far capire quanto sarebbe necessario l’immediata dismissione di ogni armamento su questo stupido pianeta Terra. Mi è capitato di imbattermi in Full Metal Jacket (1987, di Stanley Kubrick) e ci sono ricascato. E ho sentito dire al soldato Joker che “I morti sanno soltanto una cosa: che è meglio essere vivi”.

E mi sono detto che basterebbe questo per chiudere ogni discorso in merito alla necessità di imbastire ogni guerra. Perché sai, quando ci si rende conto che è vero, non c’è altro da aggiungere. Quando ci si rende conto che è vero, l’idea primordiale della vita declinata anche nella sua più basilare forma di sopravvivenza dovrebbe convincere anche i più duri di comprendonio. E invece non è così. Mi piacerebbe aprire un fronte di discussioni sulle debolezze di chi non ha capito bene il concetto di vita per evitare che mi si controbatta con qualche idiozia tipo “vivere non basta, c’è anche da considerare la qualità della vita”. Concetto che, se espresso in determinati contesti, mi può anche convincere, ma che spiattellato lì, nel bel mezzo di un conflitto bellico, mi fa girare i coglioni. Sarà che sono morto, ma ritengo che sia meglio essere vivi. E allora guardo le mie mani in decomposizione e mi scopro zombie (attingente a piene mani dalla filmografia di George A. Romero) e da zombie mi rendo conto che è meglio essere vivi, certo che è meglio essere vivi!

E se sia i morti che gli zombie si rendono conto dell’importanza di essere vivi, come è possibile che i vivi non riescano a mettere in pratica un concetto così basilare? Nel perenne conflitto al quale ci costringiamo decadiamo come esseri umani, calpestiamo il senso stesso di questa botta di culo che ci è capitato di poter gestire per poco o per tanto tempo che sia. Rispetto i suicidi, da sempre. Per i suicidi nutro quell’empatia che merita chiunque sia nella posizione di poter scegliere per se stesso. E non ho mai incolpato i gestori di quel negozietto lì, La bottega dei Suicidi (2012, di Patrice Leconte).

Chi cazzo crediamo di essere per poter decidere chi debba morire? La sottile linea di demarcazione tra la dismissione di ogni armamento su scala mondiale e l’ipotesi di un sensibile miglioramento del tenore di vita di ognuno di queste quasi otto miliardi di teste di cazzo che calpestano ad oggi la terraferma, passa dalla lettura di una dato semplice e impietoso: nel solo anno 2019, in tutto il mondo, per la spesa militare globale sono stati spesi 1.917 miliardi di dollari, cinque miliardi di dollari al giorno. Dovremmo vergognarci di parlare di qualunque altra cosa che non sia questo dato e magari farlo anche con il nostro elmetto con la scritta “Born to Kill”, in omaggio alla memoria di chi ci ha fornito una soluzione semplice a un problema che la cultura occidentale ha reso complesso, ha ramificato su piante di odio secolare annaffiate dal sangue del nemico prima e dal nostro stesso sangue subito dopo. Perché, sai com’è? È che a un certo punto moriamo tutti e vaffanculo la guerra vinta. Il giorno in cui indosseremo il nostro bel cappotto di legno arriverà, eh!

E anche se da morti ci renderemo conto che era meglio essere vivi, chi se ne frega? Vuoi mettere la cecità in vita di amare la guerra?

Amarla di quell’amore seminato nelle parole di Giovanni Papini, riprese dai Bachi da Pietra per il brano contenuto dell’album Habemus Baco, che nel 1914 scriveva: “È finita la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, dell’ipocrisia e della pacioseria. […] I civili son pronti a tornar selvaggi, gli uomini non rinnegano le madri belve. Non si contentano più dell’omicidio al minuto. […] Chi odia l’umanità – e come si può non odiarla […] – si trova in questi tempi nel suo centro di felicità. La guerra, colla sua ferocia, nello stesso tempo giustifica l’odio e lo consola. […] La guerra, infine, giova […] I campi di battaglia rendono, per molti anni, assai più di prima […]”.

L’eredità dei morti di oggi per il riscatto degli zombie di domani.

E qui voglio ringraziare i miei compagni di battaglia, quelli che cercano una via di fuga da questo inutile squallore venduto come gloria. E se anche dovessi zoppicare mentre corriamo insieme verso quell’aereo che ci porterà via da questo pantano, e se anche dovessi rimanere indietro mentre corriamo verso la pace, a loro chiedo di non lasciarmi nelle mani di questi cannibali, io non voglio farmi mangiare vivo. Come nel finale de “I quattro dell’Oca Selvaggia” (1978, di Andrew V. McLaglen) a loro chiedo l’ultimo aiuto, chiedo di confutare l’eccezione che conferma la regola, chiedo di usare quell’arma per fare l’unica cosa buona da fare: sparatemi.