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David Lynch: visioni, suoni, digressioni e significati

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“Tutte le parole che raccolgo, tutte le parole che scrivo, devono aprire instancabilmente le ali, e non fermarsi mai nel loro volo. Fino a raggiungere là dove è il tuo triste, triste cuore, e cantare per te nella notte. Oltre il luogo ove muovono le acque, oscure di tempesta o lucenti di stelle.” (W.B. Yeats

Le opere di David Lynch sono dei riflessi in una ridda del tempo in cui si fondono passato, futuro e presente, senza soluzione di continuità. Diventano così una caccia alla sua preda, alle ossessioni. Come per i surrealisti e la scrittura automatica, Lynch parte da un punto preciso e una volta messosi al lavoro lo trasforma in qualcosa di altro. Nella sua poetica c’è un melting pot di influenze, che vanno dal mondo della pittura, sua primaria passione e tecnica appresa in età formativa, passando per la musica rock e sperimentale, fino a contaminare la sua personale visione del cinema. Non sono in molti a poter vantare un background simile. Mi vengono in mente, così senza pensarci Ridley Scott, Peter Greenaway, forse Alejandro Jodorowsky. David Lynch ha dei punti di contatto con tutti questi autori, così come con i pittori a cui si ispira, da Edward Hopper a René Magritte fino a Francis Bacon; eppure nella sua visione distorta, in questa poetica contaminata e carica di riferimenti pop americani anni cinquanta, trova la sintesi per proporre al pubblico qualcosa di nuovo, di estremamente vivido e differente. 

David Lynch è quel tipo di artista che fa reparto da sé, come si usa dire. Contiene moltitudini ed elementi di distorsione, contraddizioni estreme, pericolosamente in bilico tra l’umorismo nonsense e l’horror vacui, quasi mai serioso, ma spesso serio e autoriale. Il suo cinema gronda citazioni alte e basse, senza soluzione di continuità e le sue storie sono caleidoscopi distorti, che vanno dal Mago di Oz alle visioni di Barry Gifford, fondendo al meglio tutto ciò che gli Stati Uniti hanno saputo rappresentare tra gli anni quaranta e la prima metà degli anni settanta. Scarica a terra tutti i contenitori e i connettori di idee sicure e accomodanti, per plasmare il suo universo, o se preferite, il suo impero della mente. Onirico, sfavillante. Brulicante di germi e idee folli, ma geniali. Enrico Ghezzi le definirebbe: piani di (in)visione. Lynch inaugura e rivitalizza l’idea di cinema cervello. Prende a piene mani dal pensiero di quel cinema militante sovietico dei Dziga Vertov e dei Sergej Michajlovič Ėjzenštejn. Il suo talento visionario è capace di attingere dal cinema americano anni quaranta di serie B. Si pensi ad esempio al caso di Detour di Edgar G. Ulmer, film manifesto molto amato anche da Martin Scorsese, il quale è alla base dello script di Lost Highway, titolo ripreso da una vecchia ballad anni quaranta portata al successo da Hank Williams.

C’è da dire che l’arte di David Lynch, qualunque sia la disciplina in cui si cimenti, non descrive né è rivolta al lato chiaro della vita. Siamo dalle parti del dark side dell’American Dream, nonostante la sua spudorata ammirazione per un’icona pop come quella di Elvis Presley. Il Nostro, in effetti, dei colori accesi non saprebbe cosa farsene, dato che renderebbero le cose troppo reali, limitanti. Eppure nella sua visione poetica e cinematografica, la grazia, la semplicità sono dietro l’angolo, osservando con molta attenzione. Le sue opere parlano della cosa che gli sta più a cuore: la scomparsa dell’oscurità e della confusione. Il mondo artistico che muove e genera David Lynch riguarda il mistero della creazione, il viaggio che ci conduce con fatica alla luce. Sotto questo punto di vista, Lynch è il più europeo degli americani, dato che nella sua arte si sentono forti i richiami a Kafka e Dostoevskij. Una figura così imponente da essere definita l’uomo del Rinascimento del cinema moderno americano. Icona culturale e creativa, dunque, David Lynch appare come un divoratore vorace di cultura artistica, che non conosce limiti e confini. Per diventare uno dei registi più importanti e osannati di quest’epoca sono bastati appena dieci lungometraggi, ma forse anche meno, se si considera che già prima di realizzare The Straight Story e Mulholland Drive (mentre ne scrivo resta la sua penultima opera di cinema) la critica lo pone come una figura centrale e univoca per il cinema americano d’autore e non solo. Eppure diventa un limite estremo parlare solo di film e di serie tv, quando ci si confronta con un talento come quello dell’artista di Missoula. Perché lo sguardo e il punto di vista di David Lynch sono in effetti un nervo scoperto sull’arte moderna; musicista sperimentale, fotografo, pittore, creatore di fortunate serie televisive e di molto altro ancora. Un approccio in termini retrospettivi al lavoro di David Lynch è oggi più che necessario, direi fondamentale. In un’epoca in cui lo streaming, il successo e le opinioni del pubblico, vengono spesso intercettate dagli studios e ne fanno un manifesto programmatico e visivo, in termini produttivi (con effetti il più delle volte detestabili), chiediamoci pure il motivo per cui David Lynch non realizza più un film da Inland Empire (2006). Probabilmente il suo lavoro definitivo per la settima arte. Il cinema come atto estremo di visione e di elemento fenomenologico, in alternativa alla tela da dipingere o al disco da produrre. Se ci rifletto meglio, quanto siamo stati fortunati a poter vedere un artista come Lynch all’opera, in tempo reale. “Penso che ogni volta in cui creiamo qualcosa, un dipinto così come un film, si parta sempre con tante idee, ma è quasi sempre il nostro passato che le reinventa e le trasforma. Anche se si tratta di nuove idee, il nostro passato le influenza inevitabilmente”, afferma lo stesso Lynch. 

Un po’ come diceva Ian Curtis, dove un tempo stavano alcune case, ora c’è un uomo con la pistola. In qualche parte del vicinato, un padre annichilisce il figlio, in fondo ai miei pensieri. Il carnefice si guarda attorno mentre aspetta, la corda si tende e poi si spezzerà. Un giorno moriremo nei vostri sogni. Creatore di mondi sospesi tra inconscio e realtà, incubi o sogni, Lynch è la quintessenza dell’arte nel cinema postmoderno. Basti pensare alle atmosfere delle tessiture musicali del Maestro Angelo Badalamenti, o come direbbe Foster Wallace, all’abuso dell’aggettivo lynchiano per definire qualcosa di surreale, atipico, stravagante e grottesco. Mel Brooks lo definì il Jimmy Stewart venuto da Marte, all’epoca di The Elephant Man. Lynch è il senso dello stupore e l’atmosfera di cui è imbastita, fino al midollo, la nostra epoca. È un rock’n’roll anfetaminico lanciato nelle viscere di una notte malata, debordante e stracolma di vita, di eccessi, di visioni e di gente che brucia, che vive delle proprie ossessioni, delle manie, dei rituali primordiali. Gente di notte, come direbbe Gifford. Ma David Lynch era un maestro del cinema già prima di iniziare a realizzarlo. È una visione distorta, sceneggiatura anomala, pulsante. Riavvolgete il nastro e rivedete i suoi primi lavori, cioè cortometraggi come Six Men Getting Sick, The Alphabet o The Grandmother. Neri, deliranti, assurdi. La personale revisione di Luis Buñuel e Salvador Dalì per il cineasta di Missoula. David Lynch è la versione dei Them di Baby Please Don’t Go, così com’è il pezzo di Roy Orbison, In Dreams, ma sarà poi anche I’m Deranged di David Bowie. Perché, se ci riflettete, le colonne sonore dei film di David Lynch sono dei riflessi in una ridda del tempo in cui passato, futuro e presente, sono disciolti senza soluzione di continuità. 

Concludo affermando che avendo diretto almeno un film puramente bucolico come The Straight Story, merita un posto d’onore nel mio personale Quarto Podere!

Bibliografia essenziale: 

David Lynch. Il tempo del viaggio e del sogno di Valerio Monacò

Io vedo me stesso. La mia arte, il cinema, la vita – David Lynch, a cura di Chris Rodley

David Foster Wallace, Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più)