...

Dollis Hill e’ una zona del North West London dentro la municipalità’ di Brent. A due passi da Portobello e Camden ed abbarbicata su una collina raccoglie in silenzio eco e riverberi musicali della City. Queste che seguono sono cartoline sonore (o trascrizioni di cassette?) di concerti fortuiti visti in venue che forse non saranno più’, e principalmente di band o artisti di cui (forse) non avete mai sentito parlare. Ma che fareste meglio ad ascoltare.

...

Dollis Hill Tapes Vol.1 – You’re Not Listening

di:

Londra è una bestia insaziabile. Con molti stomaci e cento intestini, da cui venire catapultati facilmente nelle proverbiali montagne di sterco. Notting Hill, eccezionale trappola per turisti con la sua maledetta iconica libreria da filmati scarsi (Hugh Grant incluso) e Portobello Market (decisamente un posto del cuore), sembrerebbe a prima vista una di quelle famose montagnette di cui sopra. A volerne però ignorare storia e preistoria, che a volere essere brevi, include le notti selvagge degli art-club-squat con i primissimi Pink Floyd e Canterbury-scene-tutta a farla da padroni, il Notting Hill Carnival, che già’ da metà anni sessanta rilancia una potenzialità’ multiculturale inaspettata in una grigia e mortalmente noiosa Inghilterra pre-tatcheriana. Senza contare poi un presente fatto di commistione continua e costante, il bookshop indipendenti (senza attori di mezzo, ma che vende solo libri di cucina), gli artigiani e inventori folli (non solo della domenica) e gli immancabili predicatori di ogni colore e fede. E, ovviamente (GRANDE PERO’), le terribili casette colorate (in cui Robbie Williams e Geri Halliwell bla bla bla), un brunch al costo di una cena stellata, la gentrificazione da spalmare sulla fetta di pane del brunch precedentemente acquistato (rigorosamente gluten free), intere famigliole in cerca di originalissimi falsi inglesi ogni santo weekend, per cui comprare assortimenti di mazze da cricket, rigorosamente false, solo per farsi strada verso Rough Trade West.

Questo il contesto, abbastanza variegato, che ci porta (me e dolce metà) alle porte di una venue pomposamente denominata “Notting Hill Arts Club”, per una gig infrasettimanale in 3 parti (cioè’ 3 set diversi, signore Iddio) di cui ci interessa l’headliner (risibile, non vale nemmeno la pena cercare di ricordarne il nome, che comunque era tale Tamu Massif). Ovviamente uno scantinato. Ma non di quelli arty e impolveratissimi, cioè i nostri soliti cessi (amatissimi). No. Una maledetta discoteca. Dove, ovviamente, un drink costa quanto la discografia (in cd) dei Nine Inch Nails. Però, alla faccia della Club Culture, e forse grazie ai milioni di PESOS sborsati per 8 drink (in due) questi, oltre al clubbing estremo (in quanto ramarro) del weekend (e del dopo concerto), durante la settimana hanno una routine di 6 (NUMERO 6, con tanti ringraziamenti alla Lanterna e Zena Tutta) serate di concerti. Insomma, fai presto a lamentarti. Poi passa. 

I primi opener (questi davvero sinceramente innominati, non hanno fatto lo sforzo manco loro di dirlo il loro nome…), che poi non sono mai opener, perché’ qui (in zona artisti indipendenti) si usa che tutti suonano un set lungo praticamente uguale, intorno alla mezz’ora, e l’headliner si allunga 10 minuti in più, DICEVO, i primi scivolano via senza infamia e senza lode, una specie di electro/r&b/rock dove Beyonce’ fa’ un po’ a schiaffi con una versione cresciutella di Billie Eilish. Clap, clap. Ciao. Ciao.

Dj ci ricorda che esiste il subwoofer. Molto. Ci compriamo anche la carriera solista di Reznor alle colonne sonore per stemperare le basse frequenze, nell’attesa del secondo opener, una giovanissima band di Manchester dal non molto promettente moniker che ha già’ montato il banchetto del merchandise giusto di fronte ad uno dei bar. Finito il cambio palco, ci avviciniamo, ma non troppo che non si sa mai con gli amici degli amici, anche se questi non sono proprio local.

Comincia il concerto di Diving Station. Suonano subito “You’re Not Listening” (qui sotto in una versione live in casa di Hugo Meredith-Hardy) e cambia immediatamente l’atmosfera. 

I 4 ventenni mancuniani, in pratica un power trio batteria-basso-chitarra più l’aggiunta di una cantante che suona anche l’arpa celtica elettrificata, cominciano a snocciolare come niente fosse fraseggi neo-folk e dream-pop su solidissime e intricate basi ritmiche al limite di certo math di scuola melodica come se niente fosse, ma senza risultare né scolastici né melensi. Tutt’altro. Il basso pulsa regolare e liquidamente funk Alà Colin Greenwood non mancando di acciaccare quando serve per assecondare poliritmie che il batterista (anche cantante in un paio di pezzi) lascia rotolare con una freschezza da navigato strumentista: nel frattempo i due strumenti a corda si rincorrono costantemente in arpeggi e contraltare a tratti iper-melodici a volte in aperture puntillistiche e impressioniste, come nella altalenante “Fruit Flies”. 

Il filo narrante sono le voci angeliche di Anna e Barnabas (il batterista/corista, ma anche lead singer) con i loro quadretti post-urbani tra esistenzialismo cittadino e spleen da gita fuori porta. Insomma ci restiamo secchi subito, la qualità’ del live è incredibile per un pugno di ragazzetti appena scesi dal furgone preso a nolo apposta per suonare in una discoteca seminterrata davanti a 35 sconosciuti per poi tornare a casa: al punto che mi fiondo al banchetto per comprare il comprabile e supportare la causa, ma i nostri giovanotti hanno poco o niente, un Cdr (ah, gli anni ’00) e un poster, il tutto sotto prezzato. Al che bisogna pure fargli la ramanzina sui costi della vita, ma al contrario, comprare “Feather Mouth”, loro mini e.p. del 2018 con relativo poster (da cui è tratta la strampalata e stralunata cavalcata indie-math “Tour Guide”).

Due Pezzi di Headliner Due, ci fanno decidere che non è il caso di guastarci il palato. Non rimane che trascinarci fuori dalla venue per una cena al volo e cominciare, arrivati in macchina, a buttare un occhio alla nutritissima discografia digitale su bandcamp dei nostri giovanissimi eroi. 

Andando a ritroso dal presente in cui vi scrivo, dal post-code Nw10 di Londra, l’ultima uscita, fra un nutrito numero di e.p. e un unico disco lungo, è “Joanna”, una ballad sbilenca e leggermente upbeat in cui la fanno da padrone la voce, che pare abbia trovato una sua dimensione ordinata e meditativa e le incursioni di chitarre e arpa su un dipanarsi della sezione ritmica davvero mai scontato. i ragazzi la suonano dal vivo in questa live session (in chiesa, d’altronde siamo inglesi) anche meglio che sul disco, con una compostezza davvero invidiabile.

Non resta che aspettare le tanto millantate riaperture estive di club e festival per cercare di riacchiappare dal vivo i quattro giovanissimi mancuniani, oramai decisamente cresciuti, per vedere se l’ombra nera di questa marea ha intaccato la loro, pare infaticabile, vena di delicatezza, portandoli in qualche inaspettata oscura radura del Greater Manchester. Nel frattempo li si può facilmente supportare sul loro bandcamp, comprando musica e affini. 

E prepararci alle prossime Dollis Hill Tapes.