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Dollis Hill e’ una zona del North West London dentro la municipalità’ di Brent. A due passi da Portobello e Camden ed abbarbicata su una collina raccoglie in silenzio eco e riverberi musicali della City. Queste che seguono sono cartoline sonore (o trascrizioni di cassette?) di concerti fortuiti visti in venue che forse non saranno più’, e principalmente di band o artisti di cui (forse) non avete mai sentito parlare. Ma che fareste meglio ad ascoltare.

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Dollis Hill Tapes Vol.2 – When can go wherever?

di:

Abbiamo i primi caduti. Forse. Ma cominciamo dall’inizio. O meglio, dalla fine. Dalle scarpe, per la precisione. E per essere ancora più precisi dalle Vans. Perché’ la venue che ospita il concerto di questa puntata è una delle (due) House of Vans esistenti al mondo, per la precisione quella appena dietro il tunnel di Waterloo Station, famoso per essere una delle poche zone franche per Writers in città.

Una specie di galleria dell’effimero dell’effimero (non è un refuso) in cui ogni settimana un nuovo pezzo copre un nuovo pezzo che copre un nuovo pezzo (come sopra).
Passato il tunnel in questione e attraversata una mortale (in quanto insospettabile) bretella per la sopraelevata si può accedere gratis (praticamente il 99% delle volte, raramente si paga un biglietto, ma SERVE PRENOTARE SEMPRE) ad un ex-edificio delle ferrovie riconvertito dalla Vans a spazio polifunzionale, tra museo pop, skate- park, cinemino e doppio spazio concerti (piccolo e grande).

Il tutto sottoterra (non ci viene mai a noia) ma sotto archi a volta a dir poco spaziali, che però ti fanno convertire all’anglicanesimo ultra-ortodosso ad ogni sub-frequenza che non si sa mai. Tra festival tematici sulla musica elettronica modulare, workshop, session solo femminili allo skate park, concerti a sorpresa di natale di Metallica e Royal Blood (a ingresso gratuito ma con lotteria), una politica inclusiva antirazzista e lgbtq oriented House of Vans si è accreditata come uno spazio in continuo fermento che almeno 4 volte al mese produce eventi da tenere d’occhio. E poi si beve a prezzi da Pub (dio santissimo onnipotente che sorreggi gli archi a tutta volta, grazie) e se fai finta di non vedere le centinaia di vetrine con modelli storici di scarpe e gadget vari, il post è davvero un piacere per gli occhi (e le orecchie, inaspettatamente).

Ricevo, un bel pomeriggio di qualche tempo fa’, la mailing list dei padroni del business scarpe-a-scacchi con un nome in evidenza nel settore “Live Music” che mi sembra promettere musica decente (o risate a profusione, a seconda delle giornate); Bloody Knees. Qui o si scherza o si fa’ davvero sul serio. Il tempo di ascoltare il loro singolone (quasi 70.000 visualizzazioni che per degli emeriti sconosciuti non è poco) su Youtube, “Not Done” per capire di essere finito in un loophole spazio temporale dove i quattro ventenni Londinesi in realtà sono dei miei coetanei usciti fuori da un 1994 ancora ubriaco di Dinosaur Jr., Jaws, Mudhoney e ovviamente QUELLI LI’. Ascoltare per credere. Il ritornello si appiccica che è un piacere.

Ovviamente, fra il dovere celebrare la nostra (QUASI) mezza età, l’interesse antropologico (“ma nel secolo dell’UK Garage ci sarà pubblico per una band post-grunge a Londra?”) e l’effettivo interesse a sudare un paio di maglie della salute buone, mi affretto a prenotare e meraviglie della tecnologia siamo già in coda all’ingresso.

Ora, sorvoliamo sui soliti due act introduttivi mal assortiti, oramai questo vizio tutto inglese di mettere in scena micro-festival lo dovreste avere intuito. Comunque a rigore di cronaca c’era un duo che faceva una specie di slacker-folk con campionatore annesso (ciao sono Beck, analcoolico biondo e il resto mi pare scontato) e l’immarcescibile cantate nu-soul (con tanto di band tutti-abbinati-tutti) che non c’entra un emeritissimo. Non si meritano entrambi nemmeno il diritto di cronaca, oltre quello che mi sono appena spremuto. Niente nomi. Niet.

Arrivano i nostri. Sembra “Talento Ibleo 1992” con tanto di vestiti dell’epoca (probabilmente i miei), accordature dell’epoca (io avevo l’accordatore almeno) e cazzeggio totale rigorosamente dell’epoca (quello non è roba mia, noi all’epoca ce la facevamo sotto). Nonostante questo, o forse proprio per questo i pezzi partono uno dietro l’altro come un treno a SevenUp, volumi squarta timpani e spleen adolescenziale che Aberdeen non sembra poi tanto lontana (effettivamente è in Scozia).

Prendete “Stiches” per esempio.

Oltre al disagio e all’enorme scazzo del cantato, c’è una macchina di morte (dal vivo eh) tra basso e batteria che faticherò a digerire nonostante ettolitri di Sidro, e soprattutto quei rallentando che altrove avrebbero fatto danni, ma qui (complice un finale della batteria che cita stupidamente il grindcore) sono funzionali a mettere d’accordo cuore e cervello.

“Daydream” è un pezzo al limite del plagio (anche senza il limite) che rimarca l’amore dei quattro per la dicotomia fuzz e melodie pop-appiccicose. E nel mezzo della scaletta offre una interessante opportunità per rendermi conto che la sala (piccola) è sold-out (siamo sulle 300 persone) e tutti cantano, tutti. Quindi il loophole si evidentemente allargato e ci sono sprofondato dentro anche io.

Verso la fine della scaletta, gli ultimi 4 pezzi fanno intravedere una direzione nuova (forse), una specie di sintesi tra post-grunge e sprazzi shoegaze, come nella conclusiva (anzi conclusivissima, dato che l’allungano a quasi dieci minuti) “Reel”.

Fine concerto. Pavimento scivoloso da palestra a fine turno, niente merch perché’ i ragazzi lo scazzo ce l’hanno nel sangue, e come lumache ubriache tracciamo scie verso l’uscita di una Londra oramai notturna e piovosa come sempre, sempre, sempre.

Ma c’è un però. House of Vans sarà uno degli ultimi posti a riaprire, per motivi di sicurezza legati al covid gli spazi sotterranei sono fra gli ultimi a potere garantire areazione sufficiente e quindi condizioni ideali per ospitare pubblico, ma non mancano certo di fondi, opportunità o garanzie per ricominciare a garantire. Chi probabilmente non rivedremo più in giro sono i ragazzi di cui sopra, cioè le sanguinanti ginocchia. La loro attività video ed e.p. è ferma a subito prima la pandemia, le loro attività social sono congelate da un pezzo e contattati dal vostro affezionatissimo alla ricerca di materiale promozionale (principalmente foto degne di questo nome) in risposta ho ricevuto su gmail il classico cespuglio rotolante da cartoni anni ’70. Non mi resta che suggerirvi un tuffo spazio temporale nel loro (QUASI) full lenght del 2017 “Maybe It’s Easy’ su Spotify che contiene alcune delle cose più pregiate prodotte dai nostri oramai, forse, dissolti argonauti del turbo-distortion.