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Dollis Hill e’ una zona del North West London dentro la municipalità’ di Brent. A due passi da Portobello e Camden ed abbarbicata su una collina raccoglie in silenzio eco e riverberi musicali della City. Queste che seguono sono cartoline sonore (o trascrizioni di cassette?) di concerti fortuiti visti in venue che forse non saranno più’, e principalmente di band o artisti di cui (forse) non avete mai sentito parlare. Ma che fareste meglio ad ascoltare.

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Dollis Hill Tapes Vol. 4 – Teach us to pray

di:

Penultima puntata di questo spin-of costante di Dollis Hill Tapes, si spera, da un presente devastante fatto di silenzio e zero musica live: perché vedete, qui in Uk hanno riaperto, si, e timidamente qualcuno tenta di rimettere timidamente piede nel giro del music business live, e il vostro affezionatissimo ci prova, ma al momento è solo stato vittima di qualche turpe esperimento da balera. Perché ovviamente CI DOBBIAMO  DIVERTIRE. Il che vuol dire musica di merda, oppure DI TUTTO UN PO’.  Quindi andiamo avanti con gli ultimi due report dal passato (molto prossimo per fortuna) che poi è anche un raccontare venue che forse non esisteranno più purtroppo, o che vedranno grandi limitazioni, di capacita’ prima di tutto, e di possibilità sicuramente. 

E allora, non ci resta che prendere in mano il coraggio, e i nostri abituali 45 minuti di mezzi pubblici in direzione Hackney, North-East London, per raggiungere l’Oslo, piccola ma vivace venue che negli ultimi anni si è fatta notare per ospitare un ampio palinsesto di artisti e progetti davvero poliedrico e sorprendentemente variegato: io stesso non sono uno straniero da queste parti ed è sempre un piacere salire le scale che dal ristorante (yes) ti portano per una volta non al solito scantinato muffo, ma ad un upper-floor ultra pulito la cui acustica si lascia apprezzare anche a volumi sostenuti (di cui parleremo più’ avanti). 

L’evento in programma è a cura di Old Empire, promoter che dalle nostre parti cura un carnet di eventi sempre ricercatissimi, con una tendenza spiccata a musiche “estreme” in qualunque accezione possibile e immaginabile: il concerto è quello di David Eugene Edward (WovenHand, 16 Horsepower) e Alexander Hacke (Einsturzende Neubaten e mille altri  progetti) per il loro disco insieme “Risha” (Glitterhouse). Ovvio che a ‘sto giro è un po’ una piccola deviazione dal tema “artisti che non conoscete” verso “artisti che forse non avete visto dal vivo”. Ma che volete farci, la penna è qui, salda fra queste mani, direbbe il bardo.  

Ci perdiamo l’opening act per la solita malebolge che regna in questa oscena città, e per una volta è un dispiacere perché di solito dalle parti di Old Empire (come nel caso di Bird on a wire, altri promoter inglesi di cui dovreste prendere nota) sono concerti validi tanto quanto gli headliner (e certe volte …): i presenti sono tutti ciondolanti e presi benissimo da un set di noise e folk e non c’è traccia del nome, ne dischi o magliette. Poco male. Abbiamo il tempo di mettere in cassa un paio di drink di riscaldamento, e guardare (ma non toccare) la raccolta di chicche al banco merch per poi filare sotto il palco, piccolo ma super professionale e a misura di concerti UMANI nell’attesa che il concerto cominci. 

Ora, il qui presente negli anni ha già apprezzato The Preacher (David  Eugene Edwards) nella sua parabola folk fino alla discesa nei paradisiaci inferi celesti dell’ultimo WovenHand, e specialmente dal vivo la presenza scenica del nostro è imponente, nel suo contorcersi e urlare, mentre suona agilmente blues e derivati metal (ultimamente) per Cristo Nostro Signore. Ma qui siamo davvero dalle parti della possessione: in perenne bilico tra kitsch e terrore pure, per tutta la durata del concerto David parla una lingua fatta di Aramaico, Cherokee, e Inglese, salmodiando maledicendo (sembra), spesso libero dei strumenti (una chitarra elettrica e una banjola) sembra tarantolato e in procinto di vomitarci addosso la quasi totalità degli spiriti che popolano le schiere celesti (o quelle infernali, up to you). E canta, da Dio. 

Dalla parte opposta del palco, con una nonchalance davvero invidiabile, look da pellicola DDR, anelli giganteschi alle mani in perenne movimento su un tavolo strapieno di macchine, domina la totalità del suono che genera, Alexander Hacke. Sembra proprio lo stia impastando, ridendosela sornione, mentre il suo compare patisce le pene dell’inferno (whooops) a qualche metro da lui, e ad un continuo pulsare electro di beat up tempo, che cita un po’ tutti, da Afrika Bambataaal Pop Group, alterna sequenze di noise futuristico (nel senso dei futuristi proprio), condendo il tutto con spezie medio-orientali ed est-europee, contrappuntate dalle chitarre di Edwards. Ottolenghi, fosse più interessato al suono puro, piuttosto che a certi mosci grimer, ne sarebbe entusiasta.  

Un equilibro perfetto insomma, che ha il solo difetto di non mollare mai la presa sull’ascoltatore, di creare una costante tensione mai rilasciata, dall’inizio alla fine del loro set, complice anche il volume generale da orecchie sanguinanti (ma di una comprensibilità, perlomeno in sala, sconcertante). Non è stato il mio caso, ma molti a tre quarti di set hanno dovuto prendersi una pausa, a causa della continua pulsazione martellante proveniente dai due predicatori sul palco, a cui la voce tonante di Edwards aggiungeva una componente di angoscia da fine dei giorni non da poco: io personalmente ero in estati mistica. 

Si inizia con “Triptych” che sfilaccia dub e deserti in mille rivoli intorno alla  voce e alle corde, in uno dei pochi episodi introspettivi e pacificati del live, che comunque nasconde una tensione mortale fra le sue pieghe. 

Per rimettere subito in chiaro di che pasta saranno fatti i prossimi lunghi minuti infatti, i nostri attaccano con “All in the Palm” e da li in poi non si fermano più. 

“The tell” di cui trovate un estratto sudatissimo qui sotto il palco, continua a martellare beat vecchio stile e poetica da pulpito confermando che nessuno uscirà vivo da qui. 

La furia danza e stravolge tutti per 45 minuti ininterrotti in cui il loro esordio, e unica pubblicazione finora, Risha, viene praticamente eseguito integralmente, ma in versione hard-core (con spiccate venature gabber a tratti …). E poi silenzio. Cosi, di botto. C’è tempo per un bis di David Eugene Edwards alla banjola tratto dal repertorio 16 horsepower / Wovenhand, la spaccacuore “Strawfoot” e poi tutti a casa, non prima di avere mormorato davanti a un gentilissimo Predicatore, adesso in pace i nostri doverosi ringraziamenti per l’assoluzione globale.  

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