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Come molti viaggiatori ho visto più di quanto ricordi e ricordo più di quanto ho visto.
(Benjamin Disraeli)

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Back Home – vol. 1

di:

Partiamo dal presupposto che il mio ultimo viaggio risale a gennaio 2020, cioè poco prima che si scatenassero i cavalieri dell’Apocalisse, con cui tutti abbiamo fatto i conti nell’ultimo anno e mezzo.
E già che percorriamo il viale dei ricordi ripesco dai meandri della memoria l’ultima esperienza di volo.
Non era certo stata un’esperienza da ricordare positivamente, AerLingus dei miei non-zebedei.
Su un volo della durata di circa 4 ore, santo più santo meno, 3 e mezza erano state di turbolenze.
Rettifico: non turbolenze, montagne russe.
Ricordo distintamente di come ad un certo punto mi apparve San Patrizio con la divisa da assistente di volo, mentre spingeva il carrellino delle bibite e degli snack.
Il suo sguardo era benevolo ma sembrava dirmi : “Cara mia, dipendesse da me ti aprirei subito le porte del Paradiso, ma Pietro ha in mano qualche file su di te che non è proprio pulito pulito… io una buona parola la metto, perché mi stai simpatica, ma non ti assicuro niente”.
Fu la prima volta in assoluto, in circa 20 anni di onorata carriera da passeggera, a temere concretamente di non arrivare a destinazione.
“È andata così” – mi ritrovai a ripetermi tipo mantra.
È ANDATA COSì UN CA*#O!!!
Ma evidentemente quella sera c’era un overbooking in Paradiso e il volo arrivò a destinazione: volevo inginocchiarmi e baciare l’asfalto della pista subito dopo l’atterraggio, tipo Papa in trasferta, ma mi era già andata bene. Meglio non sfidare due volte la sorte.
Capite bene quante e quali fossero le mie aspettative a ‘sto giro.


Ogni viaggio inizia non certo il giorno della partenza ma già nel momento in cui inizi a pensarlo.
Il mio mese preferito da sempre per le partenze è il mese di Ottobre: bassa stagione, una mole accettabile di turisti in giro, tariffe non proibitive specie per i viaggi low cost, o a “basso consumo” come li definisco io.
Così, poco prima dell’estate una sera mi metto di impegno: come un cane da tartufo cerco le combinazioni migliori per una settimana di vagabondaggio nella terra che mi chiama a sé come un cordone ombelicale.
C’è chi si rilassa in una SPA, chi ama essere servito e coccolato in una crociera all inclusive in mezzo al mare e poi ci sono io.
Io non conosco altro viaggio al di fuori di quello con lo zaino in spalla e Giummo in testa.
Inizio a programmare: guardo tutte le opzioni disponibili e la mia scelta cade sulla terza settimana di ottobre.
Trascorro l’estate tra un bagno e il richiamo del vaccino, spuntando i giorni.
I giorni prima della partenza sono concitati, il giusto mix tra eccitazione e paura che condisce ogni viaggio. Organizzo bene il lavoro per la settimana in cui mancherò perché non voglio distrazioni, voglio godermi ogni secondo.
Sarà un viaggio a più tappe, anzi a dire il vero è un viaggio da una tappa al giorno.
Quasi un tour de force, uno schema che ho già testato negli ultimi tre anni e non privo di imprevisti ma è quello che mi mette “ il pepe al deretano” e mi fa sentire viva.


Parto di lunedì pomeriggio. Per arrivare a Dublino dovrò prendere due aerei, il volo diretto che fino a qualche anno fa mi ha regalato tanta speranza nel genere umano è stato eliminato da tempo ormai.
Volo numero uno, Catania- Milano/Bergamo Orio al Serio, in orario.
Volo numero due, Milano/Bergamo Orio al Serio- Dublino, stra-puntuale.
Arrivo a Dublino alle 23 e qualcosa, prendo un taxi e mi fiondo in ostello, non ho corso la maratona ma ho attraversato mezza Europa e la stanchezza inizia a farsi sentire.
La prima notte a Dublino la passo dormendo in un cubicolo da un metro per tre, la parola “posto-letto” non è mai stata più esplicita nei fatti. 
Di sicuro non è un pernotto adatto a chi soffre di claustrofobia ma è quello che moltissimi ostelli in giro per il mondo hanno adottato ormai da un manciata di anni.
Ottimizzare gli spazi in città come Dublino che accolgono ogni giorno migliaia di viaggiatori backpackers è fondamentale. 
Ed è una soluzione che offre l’essenziale: una branda dove dormire, un paio di prese usb per ricaricare i dispositivi mobile e un bagno in stanza.
I vicini che russano o che emettono altri suoni molesti durante la notte sono compresi nel prezzo ma non lo troverete specificato in nessuna clausola.
Il giorno dopo inizia l’avventura vera.


“Fresca e riposata” dopo la notte quasi insonne in ostello, prendo il primo di una lunga serie di autobus che mi porterà verso la mia seconda tappa: Galway.
I collegamenti stradali sono capillari, oltre alla Bus Eireann che è quella principale ci sono numerose compagnie che coprono tutte le tratte tra le grandi città ma anche verso quelle piccole, di raccordo.
Quando prenoto un ostello, B&b, Guest House, ancora prima del prezzo guardo sempre che distanza c’è dalla stazione bus più vicina al mio alloggio perché viaggiando da sola, carica di zaino e con i mezzi pubblici diventa di fondamentale importanza percorrere a piedi meno strada possibile.
La tratta dura circa 4 ore a causa dei vari stop intermedi ma arrivo a destinazione prima di mezzogiorno.
Non è la prima volta a Galway: città sull’oceano ha il fascino di tutti i porti, ha il profumo delle vite che passano da li e si fermano solo per poco, per riposare, e poi riprendono la propria strada.
Appena arrivata, affamata, mi fermo in una piccola locanda proprio sotto l’ostello dove ho prenotato, il check-in è previsto dopo le 14. 
Ho tempo in abbondanza per divorare con calma uova e salsicce, fagioli e caffè americano nero bollente che all’estero hanno tutto un altro sapore.
E godere del via vai di gente che vedo fuori dalla vetrina. 
Fa un freddo porco o forse sono solo io a percepire una temperatura anomala a causa del mio sangue mediterraneo.
Gli autoctoni, o “localz” li distingui dai turisti perché vanno in giro a maniche corte e pantaloncini come se fosse pieno agosto, forti di quel sangue nordico che bene si concilia alla sopravvivenza in questi luoghi.
Sono gli stessi che, da turisti, qui in Italia trovi in infradito già ad aprile.


Nel pomeriggio, dopo aver mollato lo zaino in ostello, sulla piazza principale, vado in esplorazione anche se in verità conosco già bene le stradine del centro che mi porteranno alla metà di oggi: la baia di Galway.
Qui il vento tira davvero, davvero forte, ma è sempre uno spettacolo di natura che lascia senza fiato. So già che il giorno dopo probabilmente mi sveglierò con il raffreddore e la cervicale, ma ne sarà valsa la pena.


La baia è una distesa verde che arriva direttamente sull’oceano, sulla spiaggia.
È così ampia che all’interno ci sono più campi di rugby dove i ragazzi vanno ad allenarsi: c’è chi corre, chi va in bici, chi si siede sulle panchine a guardare il mare.
Passo li tutto il pomeriggio, non riesco a farmela bastare anche se si sta facendo buio e devo ritornare verso il centro.
A malincuore do un ultimo sguardo e ritorno sui miei passi promettendo a me stessa che quella non sarà l’ultima volta. 
Lo faccio ormai da 11 anni, cioè da quando l’ho vista per la prima volta e fino ad oggi è l’unica promessa che non ho infranto.
Le stradine del centro sono affollate nonostante la pioggerellina costante, scelgo uno dei pub e mi siedo fuori per consumare una cena calda. 
La musica, nel frattempo, mi accompagna ovunque, che siano artisti di strada o che provenga dall’interno di un locale.
Le giornate sono lunghe e stancanti, resisto fino alle 22 poi riprendo la strada verso l’ostello e vado a dormire.
Il giorno dopo avrei ripreso la mia strada verso la tappa numero tre…


Ma questa storia ve la racconto il prossimo mese.