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Come molti viaggiatori ho visto più di quanto ricordi e ricordo più di quanto ho visto.
(Benjamin Disraeli)

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Impressioni di una cinefila/viaggiatrice non professionista.

di:

Ho scritto e cancellato e riscritto questo pezzo 3 volte. In principio volevo parlare di Dublino.

Volete uno spoiler?Tanto ve lo rifilo il prossimo mese, l’incipit doveva essere in soldoni:
“Partiamo dalle domande semplici. Come fate a capire di essere innamorati?”[…]“Ecco, io mi sono innamorata di una città o, meglio ancora, di un’intera nazione. E il poliamore muto.”
Ecco, doveva suonare una cosa tipo così. E invece si sa, nella vita ci si adatta e si muta in base a ciò che succede giornalmente (da brava acquario quale io sono) e quindi oggi vi parlo di cinema e di viaggi.

O più precisamente di film che parlano di viaggi. Perché? Perché mi va.


Hanno sdoganato i cinema dopo un anno e mezzo (aspettiamo tutti frementi la ripartenza dei concerti come ce li ricordavamo, senza mascherina e con quella fragranza di sudore che rende tutto selvaggio e roccherrol, ma per quello dovremo ancora pazientare) e quindi manco a dirlo mi sono fiondata alla prima proiezione interessante che ho trovato. Anzi alle prime due.


E quando il caso, il karma e il destino si uniscono nel sacro potere del Trio che “coincide con il mio” (questa è per pochissim*) la programmazione e la scelta non poteva che cadere su due film diversi ma simili nel concetto di base: il pluripremiato agli Oscar 2021 come miglior film, miglior regia e migliore attrice protagonista “Nomadland” di Chloé Zhao e il semi-sconosciuto “Sogni di Grande Nord” con protagonista/autore/viaggiatore Paolo Cognetti (nonché scrittore premio Strega 2017 col romanzo “ Le otto montagne”) diretto da Dario Acocella.


Metto le mani avanti per gli addetti ai lavori: queste righe non sono recensioni, ma impressioni da ultima fila di una cinefila non professionista.
In breve, le trame: in “Nomadland”, una sessantenne dopo la morte del marito e la perdita di un lavoro più o meno stabile in una piccola cittadina mineraria americana, con relativa casa e alloggio, si ritrova a vivere in un van e a spostarsi lungo tutta la nazione, svolgendo lavori stagionali che le permettono di vivere con poco ma dignitosamente.
L’incarnazione perfetta del concetto di “nomade” tanto caro alla storia americana e in modo particolare alla letteratura. Non è un caso, infatti, se già dalle prime sequenze la mente associa le immagini sullo schermo alle parole e alle storie di vite sfrattate di “Furore” di John Steinbeck.


“Sogni di Grande Nord” invece è il diario di viaggio e di maturità di due amici quarantenni, lo scrittore Paolo Cognetti, appunto, e l’illustratore Nicola Magrin: da Milano fino alle terre selvagge d’Alaska. Un viaggio fisico ma soprattutto “di formazione”, come si dice per alcuni romanzi, alla scoperta di se stessi in primis e sulle tracce di grandi autori come Hemingway, Carver, Jack London per citarne alcuni che di viaggi e inquietudine ne sapevano un bel po’.


Sappiate che, nel buio e nel distanziamento sociale delle sale quasi vuote, i miei dotti lacrimali sono stati abbondantemente lubrificati.
Insomma, ho pianto.
Ho pianto perché volevo stare dentro quel van scassato in giro per le route americane, nel via vai di vite che si incontrano, si intrecciano, camminano insieme, si perdono e a volte miracolosamente si ritrovano per caso o per destino.
Ho pianto perché guardando quei due amici con lo zaino in spalla ho ricordato come ci si sente da soli, sperduti ed eccitati in giro per città che non conosci, ma che ti sono stranamente familiari e dove “uno straniero è solo un amico che non abbiamo ancora conosciuto” (proverbio irlandese).
Mi è presa una tristezza densa che solo chi ha questa smania e questa condanna, quella di non riuscire a stare fermo in un posto per troppo tempo senza sentirsi fuori posto, riesce a capire.
La stessa inquietudine di Ulisse, il primo travel blogger della storia, che secondo me faceva finta di essersi perso e ritardava il ritorno a Itaca perché voleva vedere cosa c’era un pò più in la.


E quindi, a pensarci bene, era meglio parlare di Dublino.