di: Luca Atzori
Così, questo 2024 anche la XXXVI edizione del Salone del libro è andata. Il tema era “la vita immaginaria”. Un tema che intendeva forse omaggiare l’attività che in effetti, in tanti, viviamo, chi più chi meno: quella di fare accadere cose nella nostra mente, coltivare la dimensione fantasiosa o cogitativa, avendo come terreno tangibile il libro, insiemi di parole scritte. Ma si può de facto vedere a posteriori un significato ulteriore, formatosi con lo svolgimento della fiera. Perché buona parte di questo evento, si è svolto proprio nelle nostre teste. Un immenso apparato simbolico incentrato sulla dialettica tra istituzione, mainstream e “cultura dal basso” in contestazione. Non solo un edificio collocato presso Lingotto fiere a Torino contro i manifestanti pro-palestina che protestano contro l’appoggio del Salone al governo attuale di Israele, ma soprattutto informazioni, interpretazioni, prese di posizione, gente che disturba durante le conferenze, gente che sta a casa ma segue, case editrici che pagano profumatamente per partecipare e fare così parte di quella macchina di senso, investimenti dunque dal basso, per tradire la vocazione originaria e finalmente esistere.
Infatti è questo che rende così dialettica questa edizione del Salone: è evidente si tratti di esistere in una maniera o nell’altra. O accettando di essere parte di quell’essere, o negandolo. Così possiamo dire che questo Salone del libro può dirsi più che riuscito, nel suo mostrare come una fotografia il presente della Cultura (quella con la C maiuscola, orrore antropologico).
Esistere dentro il Salone è innanzitutto molto costoso. Io ho potuto accedervi con accredito, motivo per cui non ho saltato un giorno (reputo comunque molto interessante presenziare al processo di rovina, donando dettagli alla mia rabbia) ma se non ne avessi avuto possibilità, di certo non avrei speso un centesimo. Perché una volta che entri, ti trovi come sommerso dall’immondizia. Intendo innanzitutto quella alimentare. Hot-dog venduti a prezzo di aeroporto, con l’acqua forse anche più cara di quella che trovi a Milano Orio al Serio. Libri che costano talvolta più del loro prezzo di copertina, con la scusa del plus-valore rappresentato dalla promozione e dai firma-copie. Non ci si può aspettare chissà cosa, è effettivamente un quadro sincero, nel suo essere ipocrita fin nelle viscere. Un insieme di merci, prive di forza rivoluzionaria perché totalmente assorbite dal mercato, raccolte tutte in un non-luogo di quelli raccontati da Marc Augé, dove sei costretto a pagare caro tutto, quasi preso in ostaggio.
“Hai speso venti euro per entrare? Ora sei tu a decidere che qualità dare a questa spesa, e quindi in cosa investire, quanti altri soldi spendere perché quei venti euro valgano qualcosa ”. Beh io personalmente non ho mangiato uno solo di quei maledetti hot-dog a 8.00 euro. Ho digiunato, con afflato mistico. Camminando tra i vari stand, tra tante case editrici emergenti, poco conosciute e altre note nella nicchia culturale italiana. Le varie Ensemble, Interno poesia, Pietre vive etc. sparse qua e là, hanno ovviamente richiamato la mia attenzione perché la poesia contemporanea mi interessa sempre, ahimè, e a un po’ di quegli sfortunati comparti, in qualche modo appartengo (e non ci tengo) . Tra i tanti stampatori ti capitavano case editrici per bambini e ragazzi, con proposte di libri-game dalle copertine imbarazzanti come fossero pacchi di pop corn a 18 euro, case editrici di narrativa, saggistica e via dicendo. Poi i grandi editori come Einaudi, Sellerio, Adelphi, Lindau, Panini etc. etc.
In questo caso, la sublimazione non c’era. Stands brinati, senza ulteriore passaggio di stato della materia.
Ma ci sono anche i padiglioni. Ed ecco che la permanenza al Salone acquista un altro senso. Finalmente si possono posare le chiappe, e ascoltare. Annoiarsi, talvolta addormentarsi, su una sedia, dove appena la testa scende subito si rialza. La “conchedda” la chiamava, mia nonna sarda.
Dai vari personaggi che ho sentito, devo dire che forse a causa del contesto e suggestione di lotta (suggerita anche da tutto l’ambaradan danaroso), ho potuto trarre dei fastidi sparsi qua e là. Attimi che però danno modo comunque di ragionare, attivarsi, dare un senso al proprio essere immerso nella contraddizione, presente al Salone, con possibilità illimitata di ingresso, facente parte di quella stessa macchina, in un modo o nell’altro, e banalmente preso dalla lente critica, per difendersi da tutta questa oscenità, che è poi lo specchio della nostra misera quotidianità (parlo anche della mia, ovvio).
Paolo Giordano insieme a Brunori Sas , che già entrare nel padiglione denota da parte mia un masochismo molto preoccupante, per cui mi dovrò recare immediatamente da uno specialista. Dove però ho avuto la reazione immediata di alzarmi e andarmene dopo che Paolo Giordano ha raccontato di essere stato in Ucraina per scrivere articoli sul Corriere della Sera ma che per sua stessa definita vigliaccheria, non avrebbe parlato di guerra. Ascoltare poi le canzoni da festa dell’Unità miste alle sue letture, che ho avuto modo di origliare durante il soundcheck, non sarebbe stato un buon servizio al mio equilibrio mentale.
Poi Mariangela Gualtieri. Mi rendo conto, sono io il problema, ma è un personaggio che riesce a irritarmi in maniera seria. Eppure sono rimasto lì ad ascoltarla fino alla fine. La Gualtieri non è certamente una poetessa incapace. Ha la sua forza sia come autrice che come attrice. La preziosa storia del Teatro Valdoca, ha rappresentato per il teatro e la poesia, una porta di cui certamente dobbiamo essere un po’ grati. Ma la Gualtieri riesce a farti passare la voglia. Perché la sua poesia è sempre più intrisa di quella retorica della gratitudine, di francescana memoria, sulla quale ha fatto la sua fortuna, portando dunque il suo teatro a essere spogliato di ogni funzione politica. Una poesia per pomeriggi annoiati tra stanchi discendenti della borghesia, dove imparare a dire grazie per ogni stronzata, in una società che valorizza solo il nostro grado di benessere, anche quando lo maschera con fonetiche salmodie. Lanciandoti versi come “donami le giuste spade” e lì ti salva solo pensare a Christian Effe. Autrice la Gualtieri che è stata giustamente definita Kitsch dal critico letterario Matteo Marchesini. Oh Dio, si c’era anche lui. Uno dei personaggi chiave di questo Salone. Il colto sionista da strapazzo che scrive sul Foglio. Lì al Salone a presentare il suo ultimo libro Iniziazioni e libri di altri autori, come nel caso di Willy di Israel Singer, edito da Giuntina tradotto da Enrico Benella direttamente dall’Yiddish. Un’intervista a questo traduttore, certamente molto interessante, perché al di là dell’appartenenza ideologica, la lingua Yiddish è un argomento estremamente importante e affascinante. Parlata da due milioni di persone nel mondo, ma destinata a diventare in futuro una lingua morta. E certamente questa estinzione linguistica, per un sionista come Matteo Marchesini, non può che rappresentare un tema importante. Sicuramente per lui, più del genocidio che si sta svolgendo in Palestina. Bisogna prenderne atto, Matteo Marchesini è un critico che sicuramente ha una grande intelligenza, ma che con il suo discendere dal peggio dei radicali, si sollazza spesso in uscite becere e unilaterali, senza vergogna come capita a tutti quando annegano nel proprio Ego. E di questo, essendo lui certamente non uno sprovveduto, è responsabile. Rappresenta senza dubbio uno dei vari organi di potere che si fanno difendere dalla polizia all’entrata del Salone. Li lascio ai loro fronti, io diserto.
E poi c’è appunto il superereoe Zero Calcare che si toglie i panni da Clark Kent per indossare il mantello e andare a sostenere i manifestanti. Un po’ questa la dialettica del Salone, una storiella piccolo-boghese.
Anche l’apparizione di Guido Catalano ha ovviamente suscitato il mio morboso sguardo. Lui che leggeva con un rotacismo degno di semiotico interesse, le sue nuove poesie tratte dal libro Che cosa fanno le donne in bagno. Ovviamente si è appropriato della domanda più ricorrente tra i maschi delle ultime tre generazioni, e ne ha fatto il suo titolo. Il suo venderci continuamente la poesia dei buoni perché non troppo istruiti, non come quelli che scrivono orpelli per vincere ai premi letterari (parole sue). È sempre la solita cultura del livellamento verso il basso. Dove la mediocrità diventa un elemento necessario per esistere. Per non parlare di Franco Arminio che mentre firmava le copie, mandava baci, manco fosse Placido Domingo alla Scala. E torniamo così alla questione del Salone. Esistere. Come esistere?
Un altro elemento interessante è stata la contestatrice che io ho avuto modo di vedere all’azione durante le conferenze di Rosa Braidotti e Walter Siti, e che ha fatto clamore con Elena Cecchettin (che davvero no, non ho avuto alcuna intenzione di andare a sentire). Lì la questione è diventata ancora più interessante. Non nascondo che ho avuto ideazioni complottiste. Ho pensato “secondo me questa l’hanno mandata direttamente quelli del Salone”. Protestava portando argomenti pro-vita, antiabortisti. Mi è sembrato davvero assurdo. Riusciva a essere scioccante, perché in mezzo a tutta quella mediocrità, c’era un livello ancora più basso. Così sentire Rosa Braidotti che faceva salotto sul nomadismo deleuziano, Foucault, il femminismo della prima ondata, il post-umano, insomma i soliti temi di cui l’Università italiana è ormai satura fino al midollo, contrapposta a questi interventi disturbanti, riusciva ad apparire quasi felliniano (per essere proprio gentilissimi). Perché la Braidotti sa benissimo come vittimizzarsi subito di fronte alle evidenti provocazioni di una che era forse o una persona disturbata oppure una mandata da chissà chi. Con la scenetta della filosofa che intanto chiacchierava davanti a tutti con una del pubblico che era forse una sua allieva, come fossero nel loro tinello personale. Però chi sbraitava portava le ragioni della vera deficienza, quella che vedi solo nei film, o appunto in questi contesti, dove la realtà e la finzione non si sa quale confine abbiano, la vita immaginaria appunto. C’è da dire che Rosa Braidotti ha raccontato cose interessanti e piuttosto condivisibili su Spinoza, distaccandosi da una certa frangia di autori come Toni Negri, evidenziando l’importanza dell’unione del concetto di natura e cultura, e dell’estensione di questo concetto soprattutto in ambito scientifico.
Grandi coincidenze durante la presentazione del libro I figli sono finiti di Walter Siti, che mentre propinava le sue solite fascinazioni pasoliniane, si è visto disturbare dalla nostra, che gridava “i figli sono finiti perché voi li ammazzate!”. C’è da dire che Pasolini era un altro anti-abortista, e questo sicuramente Siti lo sa bene, il che è anche buffo. Poi è spuntata una voce di quelle di emergenza, perché un bambino si era perso e chiamavano i genitori a raggiungerlo al tale padiglione, con ovvia risata dal pubblico. Quella stessa voce è stata commentata da Rosa Braidotti come “voce del padrone” perché (con altre informazioni di servizio) ha disturbato anche la sua di conferenza. Io dico una donna di sessantanove anni che commenta una voce di servizio dicendo che è la voce del padrone per riallacciarsi alle questioni del patriarcato. Con tutto il rispetto ma, davvero, diamoci una regolata.
Poi questi sabotatori, come il neonazista che attacca Stefano Massini. Talmente assurdo sentire che esiste gente che contesta sostenendo che Hitler avesse ragione, che mi domando se facesse parte del pacchetto consumistico dello show Salone. Un week end che mi ha fatto diventare complottista. Non riesco a capire come sia possibile che il livello, anche da parte della contestazione, fosse così basso. Qualcosa non mi torna. C’è qualcosa sotto, o essi (i nazisti) vivono?
Insomma il livellamento verso il basso sembra essere il grande fantasma che ha aleggiato in questo Salone. Camminando speravo di incontrare qualcuno di stimato, ma niente. Spuntavano da ogni dove personaggi come Christian Raimo, Walter Veltroni, Matteo Salvini, Chiara Valerio e la pur simpatica Emanuela Fanelli. Poi sembrava di incontrare ovunque Lorenzo Tosa. Lo vedevo ovunque, ogni volta con una faccia diversa, come un incubo, un film di Wes Craven. All’uscita ho sempre provato un senso di smarrimento. Sia perché il mio senso dell’orientamento è pessimo, sia perché mi trovavo fra le mani davvero il nulla. Partecipare al Salone per vedere da vicino la banalità conflittuale in cui siamo immersi, dove la cultura è uno spettacolo ormai finito, senza una reale funzione. Le varie parole che si sono ascoltate al Salone, hanno fatto un giro su sé stesse. Si sono posate sui comodini degli italiani. Così altra fotografia che rappresenta bene questo, è la massa di persone che fotografano Alessandro Barbero mentre fa il firma-copie. In quel momento un’altra dissociazione cognitiva mi ha preso di soprassalto. Ho pensato, ma questo livellamento verso il basso, comporta anche che un divulgatore (certamente comunque valido) diventi pari a una rockstar? È questo l’enigma che mi ha lasciato il Salone. Come possano convivere in un così ristretti luoghi e tempi, tutte queste contraddizioni.
Un grande mistero. Se proprio dovessi pensare a un libro per riflettere su tutto ciò, direi Cancellazione di Percival Everett dove il protagonista nero Thelonius, si ritrova pressato dal mondo editoriale, perché non scrive in maniera sufficientemente afro-americana. Il Salone ci propone lo stesso genere di realtà. Tutte le lotte sono assorbite dagli stereotipi, perché tutto va bene, purché sia amministrabile dal mercato, con l’imposizione di una vita al di sopra delle possibilità di chiunque. Un totale appropriamento delle lotte, la loro semplificazione, il loro esistere solo se ridotte a oggetti di facile consumo. Forse una dialettica finta. Così come teorizzava Rosa Braidotti quando dava valore a opere come Millepiani di Deleuze e Guattari, che appunto però nei fatti hanno dato solo mangime ai becchi di studiosi neoliberali. Ed ecco che abbiamo davanti l’ideologia propinata dalla più importante fiera culturale italiana: un Sanremo come un altro, dove la Cultura coincide con l’intrattenimento, dove i cavalli pazzi sono (volenti o nolenti) funzionari dell’attenzione dei suoi spettatori, non più lettori.