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L’Ucraina libertaria di Nestor Makhno e riflessioni post-pandemiche.

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Nestor Makhno scrisse le sue memorie a Parigi, durante il lungo esilio dopo la rocambolesca fuga dall’Ucraina sotto il fuoco dell’Armata Rossa, alla fine del 1920, ricoperto di ferite in praticamente tutto il corpo, non in grado di camminare, trasportato per molti chilometri su una carriola e su carri di contadini. Dopo la Romania e la Polonia, dopo processi, arresti e scarcerazioni, raggiungerà la capitale francese nel 1925.

In realtà quella che scrisse fu solo la prima parte della sua autobiografia, la seconda non riuscirà mai a scriverla: la morte lo colpirà il 25 luglio del 1934, a soli 45 anni.

La prima edizione italiana de “La rivoluzione russa in Ucraina” uscirà a Ragusa presso la edizioni La Fiaccola di Franco Leggio nel 1971. Il libro vedrà una ristampa anastatica nel 1988. La nuova edizione è invece uscita nel mese di maggio del 2022, con nuova prefazione e l’inserimento di altri testi in appendice, per colmare quel “buco informativo” che l’autore non ha avuto il tempo di redigere.

Perché è importante questo libro? In primo luogo perché ci offre il quadro storico di un periodo importante di una Ucraina tanto nominata (oggi) quanto poco conosciuta, ed in particolare l’Ucraina della e nella rivoluzione russa. In secondo luogo perché l’esperienza di cui parla Makhno mette in rilievo alcune cose importanti: lo scontro in atto tra nazionalisti e popolazione, in particolare quella stragrande maggioranza di popolo contadino animato da voglia di riscatto sociale (e non nazionale) e da spirito internazionalista (e non nazionalista); e poi lo scontro tra il neo potere bolscevico e i rivoluzionari sovietici ucraini, decisi a non consegnare le loro conquiste e le facoltà decisionali messe in mano delle assemblee di villaggio, contadine e operaie, a un nuovo Stato che, pur parlando in nome del popolo, agiva sopra e contro il popolo, uccidendo la rivoluzione che il popolo faceva e difendeva.

Nestor Makhno racconta il processo di organizzazione dei contadini, l’espropriazione dei “kulaki”, i proprietari terrieri, e l’autogestione delle terre con la costituzione delle comuni. Racconta come le idee comuniste-anarchiche fossero in realtà molto vicine al mondo contadino, alla sua cultura e al suo spirito solidaristico. Dall’impegno suo e del gruppo anarchico del suo “villaggio” di Giulai-Polè (30.000 abitanti) si sviluppò, dapprima nel circondario, e poi in tutta la regione, una rete di organismi che potremmo definire “sindacali” e di resistenza, che man mano si estese ad operai ed altre categorie. Tutto questo nei primi mesi del 1917, nel clima rivoluzionario che aveva portato alla nascita dei soviet, le assemblee. All’epoca si trovava in carcere, con una condanna a vita seguita ad una condanna a morte commutata per via della giovane età a causa di un’accusa di omicidio nel 1906, durante il duro scontro tra oppositori e regime zarista. Scarcerato in seguito allo scoppio della rivoluzione si era gettato anima e corpo nell’organizzazione dei contadini, sforzandosi di imprimervi una forte carattere anarchico, cioè antistatale e autogestionario. Scioperi e occupazioni delle terre e delle proprietà dei ricchi erano all’ordine del giorno, mentre un gruppo ristretto si dedicava all’esproprio dei ricchi.

Possiamo dire che in questa zona dell’Ucraina viene applicato alla lettere il motto “tutto il potere al popolo”. Ma il processo di costruzione di una società libera dalla schiavitù e da qualsiasi forma di governo viene interrotto dalla minaccia delle potenze europee, Germania in testa, accorse a difesa dello zar. Nel frattempo i bolscevichi, nell’ottobre del 1917, avevano preso il potere e la loro idea di “potere del popolo” era ben diversa: il potere lo avrebbero esercitato loro in-vece del popolo. Lo Stato viene riorganizzato con tanto di polizia segreta, esercito, burocrati, e questo crea dissenso non solo in Ucraina, ma anche in tutte quelle situazioni in cui esistevano dei soviet che non si arrendevano all’idea di diventare strumenti di un partito politico; fra essi spiccano i marinai di Kronstadt. Il 3 marzo 1918 Lenin firma la pace di Brest-Litovsk con cui cede l’Ucraina alla Germania; è un tradimento che permetterà ai tedeschi di invadere il territorio ucraino, sostenuti dalle forze controrivoluzionarie nazionaliste.

Makhno e gli anarchici organizzano un esercito di contadini e operai volontari, supportato da formazioni di anarchici di altre regioni russe; la loro resistenza sarà tenace; per lunghi mesi ostacolano l’avanzata degli avversari; pur di reggere lo scontro si alleano con i bolscevichi, di cui tuttavia si fidano poco, sapendoli loro avversari pronti a spegnere le conquiste dei contadini una volta saldato il conto con i filo-zaristi e controrivoluzionari. In questo periodo le gesta della maknovschina superano i confini delle regioni ucraine e rappresentano un effettivo pericolo per i piani autoritari del partito bolscevico al potere. La dispendiosa lotta contro le truppe tedesche, tuttavia vittoriosa, non avrà come conseguenza l’agognato ritorno dei combattenti nei villaggi di provenienza per dedicarsi alla costruzione di un’Ucraina federalista e libertaria: l’Armata Rossa si scaglierà contro i makhnovisti, decisa a sconfiggere definitivamente l’esperimento rivoluzionario ucraino. Alla fine del 1920, dopo tre lunghi anni di guerra, l’esercito di Mosca ha la meglio. I makhnovisti sono sbaragliati, si disperderanno e, chi non sceglierà la via dell’esilio, continuerà a guerreggiare contro la dittatura bolscevica per un altro decennio; molti finiranno nelle carceri o in Siberia, sotto i plotoni di esecuzione o uccisi in combattimento. Sarà una resistenza lunga e difficile, condotta assieme a tutti i gruppi di opposizione, come le varie federazioni anarchiche, i socialisti rivoluzionari, settori sindacali più diversi, che si spegnerà ai primi degli anni Trenta.

Per chi lo desiderasse può ordinare il libro qui.

Illustrazione: Giulia Simcic 3C

Riflessioni post-pandemiche

Dove il “post” del titolo non è solo un auspicio, ma un modo per sottolineare come si sia già immersi nel tempo del bilancio e della ripartenza.

Epperò, va detto – dobbiamo dircelo – la pandemia ci lascia tutti un po’ ammaccati, intristiti, divisi. Tante relazioni si sono rotte, raffreddate, complicate. A un certo punto occorreva schierarsi, come in uno scontro: pro o contro il vaccino, pro o contro il green pass. Da una parte e dall’altra si manifestavano atteggiamenti di una rigidità assoluta, che non lasciavano spazio alla comprensione delle ragioni di chi la pensava diversamente, ovvero, alla libertà di scelta altrui. 

Forse l’imperfetto non è neanche il verbo adatto, e andrebbe adottato un più realistico verbo presente. Perché questo scontro dura tutt’ora, continua a consumarsi, con tanto di rotture, di chiusure ed incomprensioni. Siamo circondati da ex: ex amici, ex compagni, ex colleghi, gente con cui non ci saremmo mai aspettati di doverci separare, di dover litigare, di dover avere più cose che ci dividono che cose che ci uniscono, di dover mandare al macero anni e anni di belle relazioni, complicità, condivisioni. Eppure è così. Drammatico.

Da questo punto di vista la pandemia ci lascia messi male; tante cose sono peggio di prima. E questo senza parlare dei lutti e delle mancanze, delle solitudini e delle sofferenze, delle privazioni e delle difficoltà di tanti nel poter lavorare, studiare, continuare a fare le cose che facevano prima.

Ancora, mentre ogni giorno ci sciorinano delle cifre sui tamponi effettuati e sui positivi, sul tasso di positività, sui morti, cifre che ascoltiamo sempre più distrattamente, viene da pensare a quella massificante informazione che finiva per nausearci tutti. 

Ma era poi informazione? Al 90% era chiacchiericcio, bombardamento mediatico, mediocre esibizionismo da quattro soldi, confusione a basso costo. E in quel marasma mediatico proliferavano le menzogne, le mezze verità, ed anche le truffe e le speculazioni (sugli acquisti delle mascherine e delle apparecchiature sanitarie, ad esempio, sugli affitti di spazi per reparti speciali, ecc.).

La cosa che più colpisce è come, a un certo punto, siano sparite le analisi sul perché del coronavirus, su come quell’animaletto invisibile si sia potuto introdurre nelle nostre vite. Quelle belle trasmissioni e letture che ci parlavano degli effetti negativi dell’azione dell’uomo (ma andrebbe detto: del sistema capitalistico) sugli equilibri ecologici del pianeta, da cui si evinceva, ad esempio, che i disboscamenti delle grandi foreste (i polmoni del mondo), l’inquinamento delle aree più industrializzate e urbanizzate, erano veicolo di virus dal momento che provocavano (i primi) la rottura dell’habitat storico di animali selvatici che entravano in contatto con l’essere umano, oppure (i secondi) ne agevolavano la circolazione.

Quella narrazione era, in effetti, molto pericolosa. Essa, mentre descriveva come sparisce la foresta amazzonica, o come le polveri sottili in pianura Padana abbiano rappresentato delle vere e proprie autostrade per la diffusione del virus, implicitamente finiva per indicarci anche i rimedi: smetterla con l’aggressione alla natura, con l’inquinamento, con gli allevamenti intensivi, smetterla con la logica dei profitti messa davanti ad ogni cosa: diritto delle popolazioni indigene a vivere sulle loro terre, diritto del pianeta a mantenere i propri secolari equilibri ecologici. Quella narrazione ci diceva che andavano cambiati modi di produzione, stili di vita, sensibilità. Per questo non andava bene ad un sistema come quello in cui viviamo, che non ha nessuna intenzione di mettersi in discussione. Così è sparita. Da allora si è cominciato a parlare solo degli effetti senza più nominare le cause. E quindi di rimedi agli effetti e non alle cause.

Così sono spuntati i vaccini, una chiara forma di protezione ma non di prevenzione. E se accanto alla protezione non si attua la prevenzione, il virus continuerà a circolare, a proliferare, a mutare, come infatti sta facendo, e ci vorranno altri vaccini, sempre nuovi. Non sorge legittimo il dubbio che questo sia un modo di far arricchire le grandi multinazionali del farmaco? E di lasciare che continui l’assalto alle risorse naturali del pianeta?

E allora, se da questa esperienza possiamo dedurne che nulla è più come prima, sicuramente possiamo anche affermare che tutto è peggio di prima. Perché siamo tutti più deboli e indifesi rispetto al coronavirus (nonostante i vaccini), mentre il mondo va a rotoli, più velocemente di prima, visto che dopo la pandemia è arrivata anche la guerra (non è che non ci fossero guerre prima, ce ne sono una sessantina in giro per il Mondo, tutte egualmente distruttive, ma questa è stata elevata a Vera Guerra, e tutti gli stati si stanno riarmando alla grande, sottraendo ulteriori risorse a quegli interventi necessari a salvaguardare la nostra vita sul Pianeta). 

Tutto è peggio di prima eccetto i profitti delle multinazionali (ora anche di quelle che producono e commerciano armamenti), enormemente lievitati. I brevetti sono saldamente in mano alle industrie farmaceutiche denominate “big pharma”, e i paesi poveri del Pianeta hanno percentuali di vaccinati che non arrivano neanche al numero 5 (per cento). La pandemia ha messo in risalto le diseguaglianze esistenti sulla Terra, ed il Potere di una minoranza che, pur di continuare a far profitti, tiene strette nelle proprie mani le sorti dei popoli grazie al condizionamento di governi, di mezzi di informazione, di organismi internazionali.

Guarire dal virus non è sufficiente se non si guarisce da un Mondo in cui eguaglianza e libertà sono solo un privilegio per pochi ricchissimi.