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Il rock secondo Wenders (Sul rapporto tra cinema e musica)

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La musica americana sta sostituendo sempre più la produzione di significato che sempre più il cinema perde. Dalla concentrazione di blues, rock e country scaturisce qualcosa che deve essere colto non solo a livello auditivo, ma anche visivamente, in immagini come tempo e come idea di spazio.

Prendiamo come modello esplicativo la pellicola Easy Rider, dove le immagini cinematografiche sono già superflue in quanto servono per illustrare la musica e non il contrario. Sono relitti di una espressività che si è sviluppata nella musica molto più che non nelle immagini logore e fredde, che ricordano i film in grado di contenere e creare da sé la propria bellezza, la nostalgia, il pathos. In realtà “Born to be wild” degli Steppenwolf e “Wasn’t Born to Follow” dei Byrds sono il cinema della ricerca dell’America e non le immagini di Peter Fonda. Questa affermazione venne rilasciata dal giovane cineasta tedesco Wim Wenders per la rivista Filmkritik, durante il maggio del 1970. 

Ben prima che alcuni cineasti della New Hollywood, come Martin Scorsese, iniziassero a produrre le loro pellicole dove la colonna sonora non era altro che una raccolta di canzoni rock, blues o country utilizzate in modo contestuale e dinamico. Scorsese è l’esempio perfetto per quanto riguarda il binomio ancora oggi attuale che unisce il mondo del rock con quello del cinema. Oggi siamo abituati a film come quelli realizzati da registi come Jim Jarmusch, Wes Anderson, Todd Haynes o Guy Ritchie, senza escludere altri talentuosi cineasti come James Gunn e lo stesso Edgar Wright. In questi anni l’esempio perfetto sembrava quello di Quentin Tarantino, altro maestro capace di produrre film utilizzando solo canzoni o musiche già composte in precedenza per altre pellicole e adattata alla scrittura citazionista e mimetica del regista di Knoxville, Tennessee. 

Abbiamo visto come anche alcuni cinecomics sono usciti dal seminato, utilizzando canzoni per descrivere e raccontare le imprese dei supereroi. Zack Snyder per il suo “Watchmen”, trasposizione cinematografica della miniserie cult realizzata da Alan Moore e Dave Gibbons, ha omaggiato durante la lunga sequenza dei titoli di testa addirittura Bob Dylan. Mi riferisco alla magnifica sequenza dove il brano “The Times They Are a-Changin'” va oltre il concetto stesso di colonna sonora, dimostrando come il concetto sopra espresso da Wim Wenders si sia dimostrato fondato.

Ci sono tantissimi esempi di film “salvati” da una buona colonna sonora. Impossibile, ad esempio, per una generazione di cinefili ascoltare “Layla di Derek and the Dominos”, composta da Eric Clapton, senza pensare alla bellissima e cruenta sequenza di “Quei bravi ragazzi” di Martin Scorsese. Scorsese poi stabilisce un legame univoco, netto, con certe canzoni che fanno da feticcio alla sua opera. Prendiamo ad esempio l’utilizzo dei riff dei Rolling Stones, spesso utilizzati come gancio per il montaggio realizzata dalla storica collaboratrice Thelma Schoonmaker. L’uso del brano “Gimme Shelter” sempre in “Quei bravi ragazzi” è leggendario, oltre che proverbiale. Spostandoci sui territori meno violenti e più solari di una pellicola come “Almost Famous” di Cameron Crowe, possiamo vedere come il brano di Elton John, “Tiny Dancer”, abbia la capacità di descrivere al meglio una delle sequenze più celebri e cult del cinema dei primi anni duemila. Certo, non una novità assoluta per chi come me aveva apprezzato e amato un film come “The Big Lebowski”, dove le canzoni dei Creedence non erano semplice colonna sonora di sfondo, ma fulcro di tante sequenze e dialoghi di questa pellicola cult anni novanta. E che dire dell’utilizzo del brano di Bob Dylan, “The Man in Me”, sui titoli di testa e durante i trip del Drugo? Raramente abbiamo assistito a scene più godibili, lisergiche ed efficaci, durante un decennio dove, appunto, il motore trainante di tanti grandi e piccoli film era appunto la colonna sonora realizzata con brani già noti o in cerca di una tardiva riscoperta. Potrei fare una lunghissima lista di canzoni che vanno ad arricchire o a caratterizzare un film, ma concludo proprio con Wim Wenders e con una pellicola che ho molto amato proprio dei primi anni novanta: mi riferisco al film “Fino alla fine del mondo – Until the End of the World”. Nel film del 1991 interpretato da William Hurt, troviamo una lista di nomi incredibile. Passiamo infatti dagli U2 “berlinesi” di Achtung Baby a Patti Smith, dai Talking Heads all’amato Nick Cave, fino ad arrivare a Elvis Costello, Daniel Lanois, Lou Reed, Depeche Mode e R.E.M. 

Raramente abbiamo visto e ascoltato di meglio. Specialmente se si considera che, tranne nel caso degli U2, le composizioni sono brani originali scritti ed eseguiti appositamente come commento al clima visionario e apocalittico della pellicola di Wim Wenders, la cui durata della prima versione director’s cut era di 179 minuti. Un vero trip per un decennio dove il cinema era un linguaggio ancora audace e non legato a certe logiche di mercato attuali.

Purtroppo o per fortuna, diremmo ora.