La rubrica scherzosa e un po' comica, che potrebbe diventare tragica da un momento all'altro: dipende dal film che ho visto, dalla musica che sto ascoltando, dall'ultima polemica che impazza on line, tanto per chiarire che si tratta solo di un punto di vista personale.
di: Enrica Orlando
Come un capello in un piatto di spaghetti -che non c’entra, eh, ma alla fine ci è entrato.
Come il cacio su un piatto a base di pesce -che non c’entra niente, ma dipende.
Come un paragone fatto da Bersani -che lì per lì dici “boh, ma che vuol dire?”, poi però trovi il senso.
Ho deciso di mettere a confronto due personaggi che apparentemente sono lontani, ma invece, secondo me, no: Carlo Verdone e Zerocalcare.
Carlo Verdone, 71 anni.
Zerocalcare, 37 anni.
Entrambi “romani de’ Roma”.
Entrambi si raccontano attraverso le loro origini capitoline.
Entrambi famosi per le opere, ma anche per il personaggio che rappresentano.
Entrambi hanno sperimentato la miniserie.
Verdone con Vita da Carlo su Prime Video e Zerocalcare con Strappare lungo i bordi su Netflix.
Le ho viste entrambe e, se singolarmente raccontano molto, messe a confronto raccontano anche di più.
Anzi, forse raccontano meglio, qualcosa che ci riguarda tutti.
-Verdone viene da decenni di attività da regista e attore, durante i quali è rimasto a navigare quasi sempre nelle stesse acque sicure di una comicità e di un tipo di commedia collaudate, attraverso un personaggio ormai familiare, il suo, verso il quale il pubblico non può che provare benevola affezione.
Per lui, dunque, la formula della miniserie potrebbe sembrare davvero un salto nel vuoto. Certo, nella misura in cui girare una serie, in questo momento storico, può essere considerato un “salto nel vuoto”. Ormai è tutto così serializzato, che appena esce un “normale” lungo di un’ora e quaranta senza troppa suspance e effettoni speciali, iniziamo a scalpitare sul divano. Cerchiamo una pausa, una sigla, un “nel prossimo episodio”, “mio dio non può essere così lungo, non posso passare la serata sul divano, io ho una vita, dei figli, un lavoro!!”.
Poi magari facciamo nottata per guardare tutte le puntate dell’ultima stagione de La casa di carta, anche se ci ha deluso già al finale della prima.
Per dire: fare serie tv sembra ormai un percorso obbligato.
E non c’è mica niente di male, ma per un autore come Verdone, che si muove nella stessa comfort zone da secoli, potrebbe non essere una passeggiata.
Soprattutto dal momento che Verdone ha deciso di parlare di se stesso, mescolando fiction e realtà. La serie sembra un mezzo reality stile The Osbournes, senza la follia disorientante di Ozzy e la fiction italiana “facile”, stile Un medico in famiglia.
-Per Zerocalcare la miniserie sembra più familiare.
Già nel 2020, in piena pandemia, aveva presentato delle puntate a tema, a Propaganda Live, e aveva avuto buoni riscontri.
Anche Zerocalcare, la cui fama è cresciuta gradualmente e esponenzialmente per un decennio, attraverso le opere e i social, ha deciso nuovamente di parlare di se stesso, con modalità pressoché identiche a quelle che utilizza nei fumetti: un monologo interiore, una lente di ingrandimento che da Rebibbia inquadra Roma, l’Italia, ma soprattutto una generazione.
-Verdone racconta la difficoltà di vivere la sua vita, diviso tra le aspettative dei figli, della ex moglie, dei suoceri, del produttore, degli amici, dei fan e dei romani. Ed è soprattutto per la difficoltà a dire ‘no’, che si trova sempre incastrato in situazioni che non lo soddisfano, fino al punto di ritrovarsi candidato come sindaco di Roma.
Con ottime probabilità di essere eletto. E tutto per un banale equivoco, per la sua incapacità di decidere e per la sua propensione a prendere tempo.
-Zerocalcare racconta semplicemente un viaggio che deve fare da Roma a Biella con gli amici di sempre, per commemorare la morte di un’amica comune, con cui ha quasi avuto una storia d’amore. ‘Quasi’, perché anche lui prende tempo, ha sempre rimandato, ha sempre evitato di scegliere, di decidere, “è cintura nera de come se schiva la vita”.
-Verdone racconta tutto attraverso la comicità intrinseca del personaggio che egli stesso rappresenta, con le sue nevrosi, le sue ipocondrie e la sua romanità nazionalmente riconosciuta.
Zerocalcare racconta tutto attraverso lunghe parentesi fatte di flash back, digressioni, proiezioni e riflessioni, che gli frullano in testa attraverso una romanità di periferia, che non è difficile da riconoscere a livello nazionale, ma è più colorata e colorita, racconta delle spaccature molto più profonde di quelle che chiaramente si possono intuire dal terrazzo di casa Verdone, con vista mozzafiato su tutta la capitale.
Diciamo che se Carlo è romano, Calcare è romanesco.
-Né Verdone né Zerocalcare trattano il tema Covid.
In Strappare lungo i bordi viene nominato una volta, di sfuggita.
In Vita da Carlo gli viene dedicata una piccola e poco originale gag.
Ovvero: quando la figlia di Verdone porta a casa un amico coreano, lui lo scambia per cinese e gli chiede con innocenza, come abbiano fatto a far scappare il virus dal laboratorio.
Il ragazzo, fino a quel momento molto cordiale, si infuria, batte i pugni sul tavolo e va via con la figlia. Verdone si accascia sul divano, ma passano pochi secondi e i due rientrano, ridendo perché in realtà non sono arrabbiati ma “è coreano papà, non cinese”, dice la figlia.
Boh. Ho detto “gag poco originale”, ma volevo dire “molto imbarazzante”.
Tuttavia, se con Zerocalcare l’assenza del virus è poco percepita, perché giustificabile dalla dimensione irreale dell’animazione, nella serie di Verdone potrebbe sembrare un errore. La storia pretende di portare in luce temi di grande attualità -il degrado di Roma, gli effetti dei social, la difficoltà a farsi dare la pillola del giorno dopo- ma nessuno porta la mascherina. Ci sono scene negli ospedali, pronto soccorso, farmacie ma niente, tutto come sempre. Eppure la pandemia è tutt’altro che conclusa.
-In Vita da Carlo, le parti malinconiche riguardano situazioni molto circoscritte: la sua lotta per vivere una vita tranquilla e le riflessioni sulla situazione della città.
Il tutto però non riesce a ramificarsi e resta in superficie, mostrando soprattutto macchiette, cliché e situazioni al limite della parodia: il ragazzo che cade dal motorino a causa di una buca, l’anziana suocera che cade ballando il rock ‘n roll, la corsa folle in auto, a causa dell’autista che litiga con la fidanzata gelosa, il produttore inquadrato dal basso che urla volgarità e pensa solo al profitto, l’autore troppo “impegnato”, i politici squali. Insomma, profili chiari, tipici della commedia di Verdone, che riescono anche a far ridere, ma senza mai andare altrove.
Anche quando si toccano temi tragici, come la morte dell’ accanita fan di Verdone -del Verdone dei vecchi film però- non ci si commuove.
La scena risente del residuo delle gag precedenti, nelle quali lui faceva di tutto per evitarla.
Anche le parti malinconiche in Strappare lungo i bordi partono da situazioni molto circoscritte -il disagio e la difficoltà a barcamenarsi tra i dettagli della quotidianità- ma alla fine scavano, affondano e diventano universali.
Anche se non tutti viviamo in una casa disordinata, che sembra aver preso vita propria e si appresta a dichiararci guerra, come in una stagione di Games of Thrones, tutti ci riconosciamo nell’indolenza di chi non riesce ad avere neanche il controllo del proprio appartamento.
Quando si toccano temi tragici, come il suicidio dell’amica di Zerocalcare, il tono cambia radicalmente. Zerocalcare non rinuncia alla battuta e alla solita rappresentazione della incontenibile inadeguatezza del suo personaggio, ma a quel punto non si ride. Quelle battute sono pinze di alleggerimento, per non farti crollare completamente un sipario di angoscia sulla testa.
-Sia Calcare che Verdone raccontano la fragilità della mascolinità.
Calcare lo fa molto più consapevolmente, mostrando non solo le falle di una cultura patriarcale che non ha educato i maschi ai sentimenti, ma facendo risolvere le questioni e i dilemmi della sua vita alle figure femminili.
Pur combattendo contro gli stessi problemi e pur sembrando destinate a non trovare stabilità come lui, sono sempre le donne a sembrare più definite, più presenti a loro stesse e più in grado di condividere e risolvere i dilemmi a volte cervellotici del protagonista.
Verdone è molto meno consapevole e, in questo senso, la cosa si fa più interessante, da un punto di vista sociologico.
Le donne della sua storia sono sempre più pratiche e risolte: la ex ha trovato la felicità, la farmacista soffre per amore ma è comunque in grado di prendere delle decisioni, la figlia lascia il fidanzato poco propositivo, per inseguire con determinazione i suoi sogni. La governante sembra una Tina Pica più moderna: dura, chiara e sicura di sé. Anche la ragazza con cui il figlio di Verdone ha una breve storia appare indipendente, sicura di sé ed è anche l’unica ad aprire gli occhi del ragazzo sul padre. Ma come per altri aspetti, tutto scivola nello stereotipo.
In entrambe le serie, comunque, le donne sembrano più proiettate verso il futuro, mentre gli uomini sembrano arretrare o tutt’al più galleggiare.
-La coscienza di Zerocalcare è un armadillo, doppiato da Valerio Mastandrea, che conferisce a questa figura un distacco ironico e rassegnato, che si contrappone intelligentemente al protagonista.
La coscienza di Verdone è Max Tortora, nei panni di se stesso, che interpreta un attore con meno velleità artistiche dell’amico, più giocoso e meno afflitto, ma tutto sommato irrisolto e insicuro come lui.
-Il difetto principale della serie di Zerocalcare non è la parlata romanesca -che, al di là delle polemiche da social, è più che giustificata- e neanche il doppiaggio, perché è sincronizzato con il ritmo che hanno i suoi pensieri. L’unica pecca è che non racconta nulla di nuovo. Gag e situazioni sono le stesse di dieci anni fa. C’è ancora il G8, il disagio degli anni scolastici raccontato in Un polpo alla gola, la metafora della generazione che galleggia in mare aperto, appesa a un tronco di fortuna, che tanto somiglia alla metafora dei fili d’erba e, traslando, a quella dello “strappare lungo i bordi” della vita e della propria identità da definire. E ancora la casa in disordine, l’ermetismo dell’amico, certe “chiamate perse” alle quali sarebbe meglio rispondere.
Anche il modo in cui è raccontata la morte dell’amica non è nuovo.
Ma ovviamente, per Netflix, Calcare ha proposto cose collaudate, che sono andate a raccogliere un pubblico più ampio di quello che già aveva. E lo ha spauto fare. La storia risulta comunque convincente, il ritmo è trascinante e le scene sono dosate in modo da permetterti di godere sia delle parti comiche che di quelle tragiche, come se non le avessi già lette.
Il difetto principale di Verdone è che parte dal presupposto di voler cambiare ma non lo fa. Infatti le scene che funzionano di più, sono legate alla riproposizione di quei personaggi che lui dice di voler mettere in soffitta.
Si avverte in sostanza una certa paraculaggine, una sorta di: guarda, mi metto a fare altro, ma te lo racconto facendo sempre le stesse cose.
-Vita da Carlo si presenta come una potenziale novità, ma alla fine ricalca le solite modalità della commedia di Verdone. Sembra quasi concludersi in fretta, chiudendo male alcune storie, con una dichiarazione quasi stanca ma non priva di speranza: “voglio solo sorridere”.
Un messaggio positivo che onestamente arriva solo al personaggio Carlo. Forse a Verdone stesso. Ma allo spettatore resta ben poco.
Strappare lungo i bordi lascia lo stesso senso di precarietà che tormenta il personaggio, un sentimento di instabilità che non può avere una risposta unica, né quindi una vera conclusione. Ma trova consolazione nel senso di appartenenza che il personaggio di Calcare trova negli amici di sempre e nell’identificazione dello spettatore con lui e la sua generazione.
Ecco. Allora. Tornando al punto.
Verdone ha 71 anni.
Zerocalcare ha 37 anni.
Due generazioni a confronto.
Entrambe piuttosto autoriferite, guardano alla realtà ma sempre dalla loro nicchia tutto sommato confortevole, un po’ più Comfortably numb Calcare, un po’ più “poltrona morbida-sigaro-whiskey e I did it my way per Verdone.Sono gli effetti collaterali dell’individualismo social(e), forse.
Entrambe raccontano una umanità sospesa. Entrambe sembrano stanche.
Solo che quella dei Boomer sembra più paracula, rassegnata e tutto sommato desiderosa solo di rasserenarsi un attimo; quella dei Millennial, eccoci qui, è ugualmente incerta ma decisamente più sofferente, spaventata e ferma, anche se sgambetta nervosa sott’acqua.
Dove nessuno la vede.
Ecco, non so in effetti chi ne esce meglio.