...

La rubrica scherzosa e un po' comica, che potrebbe diventare tragica da un momento all'altro: dipende dal film che ho visto, dalla musica che sto ascoltando, dall'ultima polemica che impazza on line, tanto per chiarire che si tratta solo di un punto di vista personale.

E noi come stronzi rimanemmo a gua(r)dare

di:

Come quando guardavamo le notizie sui bollettini dei morti di Covid.
Come quando guardiamo le notizie in questi giorni di guerra.
Come quando hai percezione del problema, ma sai di esserne anche parte.
E noi come stronzi rimanemmo a guardare.
Prima di essere il titolo del film di Pif, E noi come stronzi rimanemmo a guardare, è un anatema, anzi no, una fotografia della realtà, una condizione esistenziale.
Ho incontrato Pif al cinema Arsenale di Pisa, proprio per parlare di questo.

E noi come stronzi rimanemmo a guardare: ho incontrato Pif

Mentre camminavo per raggiungere la sala per l’incontro, tutte le domande che pensavo di porgli, e che mi frullavano nella testa, trovavano sempre una sola, possibile risposta “E noi come stronzi rimanemmo a guardare.”
Che è anche la risposta del film e la risposta a tutto quello che ci sta accadendo.  

Il film racconta la storia di Arturo Giammarerese che, in un futuro non tanto lontano, perde lavoro e amore, per ritrovarsi a fare il rider, vittima di algoritmi che gestiscono la vita, la carriera, le ore di sonno e i rapporti umani. Arturo infatti si innamora di un ologramma, fornito a pagamento dalla stessa app che gli dà lavoro. 
È la dittatura dell’algoritmo, la vittoria del virtuale sul reale e l’annullamento totale della consapevolezza.

Di spunti di riflessione ce ne sono tanti, forse troppi, nel senso che poi, inevitabilmente, si finisce per lasciarne molti in superficie. Che poi questo sembra essere anche la metafora della sensazione di precarietà e inerzia con cui procediamo negli ultimi anni: tutto è a portata di mano, tutti sono a portata di orecchio e di videochiamata, abbiamo così tanta scelta che è difficile fermarsi e approfondire amori, serie tv, film, il menù della pizzeria su Just Eat, tutto. E restiamo piuttosto soli e isolati, perdiamo pezzi, il tempo sembra scivolare senza che ne abbiamo mai consapevolezza. E questo da ben prima della pandemia.

Forse anche la scelta di una realtà un po’ futuristica, certamente futuribile ma allo stesso tempo già reale – le condizioni lavorative dei rider, ad esempio, sono assolutamente attuali- lascia confusi e i toni della storia restano imprecisi – né dramma né commedia.
La cornice, che si intravede all’inizio e quasi alla fine del film, racconta come i rapporti umani reali siano superficiali: si rivelano attraverso la comunicazione degli hater e le feste in maschera, con coreografie che ridicolizzano, non è chiaro con quanta intenzione, ogni cosa: dal fascismo alla religione.

Resta una storia che poteva essere raccontata meglio, ma che ha il pregio di aprire una serie di interrogativi che in Italia sembrano sempre restare in secondo piano, perché, appunto, questo vizio di restare un po’ come stronzi a guardare, ce lo abbiamo sempre avuto.

E noi, senza consapevolezza, rimanemmo a guardare

Il tema della consapevolezza è centrale e Pif lo spiega subito in sala stampa: “È un problema di mancanza di consapevolezza che caratterizza il nostro paese. Il titolo del film, in Italia, si applica bene a tutto”.
Difficile dargli torto.
Ma la consapevolezza è centrale anche riguardo la questione dell’algoritmo, che è la parola chiave del film. 
Pif ci tiene a ribadire che non è contrario in maniera netta alla tecnologia, ma che allo stesso tempo ha ben presente quanto sia importante che l’uomo ne resti in qualche misura padrone. Per questa ragione, infatti, spiega anche come ami smitizzare un po’ tutto: lo ha fatto con la mafia, vuole farlo con la tecnologia in questo film. “Al ragazzotto americano del film, che mi propone una app come soluzione a tutto, mi verrebbe da dire semplicemente ’ma vai a cagare’ “.

A quel punto ho posto le mie domande.

Le mia chiacchierata con Pif

La tua è una storia ambientata in un futuro distopico, anche se non lontano dal nostro presente.
È una cosa piuttosto rara nel nostro cinema. Cosa ti ha spinto a fare questa scelta e come mai, secondo te, non ci sono molti film italiani che seguono questo filone?
Ci sono delle difficoltà in particolare?

Credo che, in generale, il problema sia che in Italia non ci sono molti film che parlano di lavoro. Le difficoltà sono state relative più che altro al fatto che il film non è costato poco e comunque sai di portare in sala qualcosa a cui il pubblico non è abituato. 
Ho cercato di rendere l’ambientazione il più astratta possibile – tranne alcune scene dove sono riconoscibili sia Roma che Milano – per restituire una realtà che si prospetta piuttosto universale. Ma in effetti molti aspetti del film sono già realtà.

Il tuo personaggio fa l’hater di professione, per arrotondare. Qual è il tuo rapporto con la comunicazione sui social e quanto pensi che questo tipo di comunicazione stia influendo o possa influire sul futuro?

Agli hater non ci si abitua. Mi è capitato di essere stato vittima di questi attacchi per un paio di giorni e non è piacevole. Poi ti rendi conto che dietro quegli hater spesso non ci sono neanche persone reali.
Credo che uno degli effetti collaterali peggiori sia il rischio di limitarsi, nel senso che per evitare di essere attaccati in modo indiscriminato si smetta di dire liberamente quello che si pensa.

Una riflessione su politica e religione. Nel futuro del film, il fascismo e la religione sono diventati un balletto, una carnevalata. In “In Guerra per Amore”, ambientato nel passato, c’erano delle persone ossessionate dalle statue-feticcio di Mussolini e della Madonna; qui Mussolini/il fascismo e il Papa/la religione sembrano entrambi validi solo per feste in maschera. Sembri suggerire che ci sia stata poca o nessuna evoluzione nel rapporto tra politica e persone.
Come pensi che dovrebbe evolvere questo rapporto?

Per pura casualità questo film è uscito poco dopo l’attacco alla sede della CGIL a Roma. Penso che ci siano parecchie previsioni azzeccate, in questo film. E sì, immagino che nel futuro la politica e la religione possano diventare tranquillamente un balletto, qualcuno dirà “facciamo una festa con la musica e i balletti fascisti”. 


Come stronzi, avrei aggiunto. Ma il nostro tempo era finito. 
Pif poi ha presentato il film in sala, che era anche bella piena. 

E noi come stronzi proviamo a gua(r)dare

Quando sono uscita non ho risolto i miei dubbi sul film e forse la cosa che in un certo senso ho apprezzato di Pif è la sensazione che non li abbia risolti neanche lui. Ma del resto, non è roba tanto semplice da risolvere.
Ma iniziare a porsi e a porre delle domande, a manifestare le proprie incertezze e posizioni, anche su uno dei mille temi che ci assillano, è un buon segno. 
Un primo passo per iniziare a guadare, invece di restare a guardare, il mare di merda – passatemi la voglarità – in cui sembriamo annaspare. 

E ho avuto la conferma di questa sensazione, sulla via del ritorno, quando ho incrociato il corteo per la pace.

Voglio dire, va bene che siamo tutti un po’ stronzi, nel senso di inermi e limitati nell’agire, ma almeno fateci dire che ci siamo rotti le palle.