La rubrica scherzosa e un po' comica, che potrebbe diventare tragica da un momento all'altro: dipende dal film che ho visto, dalla musica che sto ascoltando, dall'ultima polemica che impazza on line, tanto per chiarire che si tratta solo di un punto di vista personale.
di: Enrica Orlando
Come quando “siamo felici”.
Come quando Mia Wallace dice “È solo allora che sai di aver trovato qualcuno di speciale, quando puoi chiudere quella ca**o di bocca per un momento e condividere il silenzio in santa pace”.
Come quando sei così preso da qualcosa che non vedi e non senti altro.
Quando troviamo una cosa figa su Netlfix che ci fa dimenticare il cellulare: facciamoci caso.
The House – film animato in tre episodi, prodotto per Netflix da Nexus Studio – per me è stato questo: qualcosa che ti attira con un filo teso lungo tutta la narrazione, che ti fa seguire il percorso, chiedendoti dove voglia andare a parare, ma soprattutto lasciandoti concentrare sul presente delle singole storie, passo dopo passo, proprio come la tecnica di stop motion con cui è stata realizzato.
Tecnica e narrazione al servizio di un concetto di tempo sospeso, dove per orientarti non puoi guardare troppo oltre il tuo naso.
Esattamente quel tempo in cui siamo immersi e che la pandemia ci ha proposto in tutto il suo potere disorientante: restrizioni, tempi morti, tempi restituiti per qualche mese, vita in rete e morte nella realtà.
Il tempo è diventato un organetto che si apre e chiude, che dilata e restringe le nostre vite.
Anzi, la nostra sensazione di star vivendo.
E anche se la pandemia non viene nominata mai nello specifico, guardando The House è impossibile non riconoscersi nel concetto di inquietudine, isolamento e angoscia sottile, spalmato in diverse dosi, per tutti e tre gli episodi.
Tutti e tre gli episodi di The House ruotano intorno al concetto di casa. La stessa grande casa in stile coloniale è teatro di storie diverse, tutte sviluppate dall’ idea di solitudine, ossessione, incomunicabilità.
Ogni episodio ha delle coordinate tratteggiate a grandi linee, ma si intuisce che ogni atto si riferisce a un tempo: passato, presente e futuro. In quest’ordine.
A rendere tutto più universale e alienante, il fatto che i protagonisti sono umani dalla pelle in feltro, con occhi piccoli e vicini, in un modo disturbante e tenero allo stesso tempo, o animali antropomorfi.
Ogni episodio è introdotto da un titolo, come un sipario che si apre sulla storia, ma anche sulle nostre paure più recondite.
Le radici affondano nella purezza dei sentimenti.
800. Passato.
Una famiglia di contadini in gravi ristrettezze economiche, pensa di trovare la ricchezza nell’offerta di un architetto, che propone loro di vivere nella sua lussuosa dimora; finiranno per perdere la loro casa, i loro affetti e si trasformeranno letteralmente in pezzi della mobilia.
Si svuotano di sentimenti e diventano le loro illusioni.
Si salveranno solo le due piccole di casa, le uniche rimaste lucide nel percepire l’importanza dei propri sentimenti.
Fuggiranno nella neve verso un futuro incerto, come in una versione fiabesca di Shining.
Il domani non ha radici nelle illusioni, nella finzione e nella materialità.
Per mettere le radici, non devi incatenarti ad esse.
Presente.
Un topo antropomorfo investe tutti i suoi averi, per ristrutturare la casa e metterla in vendita. Ma presto sarà ossessionato da ospiti invadenti, che occupano le stanze senza intenzione di acquistare. Come per un karma kafkiano, il topo si trasformerà presto nella sua stessa ossessione: regredisce allo stato animalesco e abbrutito, di topo che rosicchia avido, senza badare a null’altro. Insieme a tutti gli altri topi/ossessioni, finirà per nutrirsi dei suoi incubi.
Le radici sono dentro di noi.
Futuro
Una gatta, anche lei antropomorfa, vive nella sua casa immersa nell’acqua, minacciata da alluvioni costanti e sempre più devastanti.
Il suo sogno/ossessione è ristrutturarla e cerca di farlo reinvestendo i soldi degli affittuari, che però non possono pagare, se non con generi alimentari o offrendole strampalate esperienze mistiche.
In questo episodio i toni diventano meno cupi, si fa strada una leggerezza e una nota ironica, confermate anche dalle luci e dai colori più tenui.
Una nebbia sembra far galleggiare la casa e le certezze. Gli amici affittuari della gatta decidono di salpare, perché prendono coscienza dell’impossibilità di ricostruire ciò che ormai è destinato a naufragare.
Dopo una prima riluttanza, la gatta fa lo stesso e scopre che bastava tirare una leva, per far spuntare un’elica sul tetto della sua casa e volare via, verso un orizzonte incerto, ma meno buio e soprattutto condiviso dalle speranze e dalla voglia di andare avanti di chi le è accanto.
C’è il progredire di passato – presente- futuro in cui le ossessioni sono sempre protagoniste. L’unico modo per superarle e vincerle è “lasciar andare”, “volare” sopra di esse, aprendosi agli altri e affidandosi anche a una navigazione a vista, pur di non ostinarsi a restare piantati sulle sabbie mobili.
Oltre al progredire, c’è anche una circolarità: il primo episodio si chiude con lo stesso messaggio di speranza del finale, due bambine in fuga verso il futuro. Ma se in quel caso era buio e immerso nel gelo, adesso è più luminoso e rassicurante, in qualche modo primitivo, senza “cose” e “case”, ma con sentimenti e speranze.
Credo che in questo senso The house sia un gioiello: non solo suggerisce un altro tempo e un’altra prospettiva, te le regala, per tutti i 97 minuti di visione.
Peccato solo che sia uscito prima della crisi europea-mondiale, iniziata ufficialmente con l’invasione russa dell’Ucraina.
Perché credo che necessiteremo di un episodio in più.
Ancora un altro tempo. Un altro futuro.