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LA LOCANDIERA di Goldoni al Teatro Carignano

di:

di Carlo Goldoni
con Sonia Bergamasco
Marta Cortellazzo Wiel, Ludovico Fededegni, Giovanni Franzoni, Francesco Manetti, Annibale Pavone, Gabriele Pestilli, Marta Pizzigallo
regia Antonio Latella
dramaturg Linda Dalisi
scene Annelisa Zaccheria
costumi Graziella Pepe
musiche e suono Franco Visioli
luci Simone De Angelis

Il 14 dicembre, proprio verso la fine del 2024, andavo a vedere La locandiera di Carlo Goldoni al Teatro Carignano. Un sabato di quelli che dopo la fine dello spettacolo, alle 22.00, si va a casa, si sta da soli e con malinconico sorriso, si pensa al Cavaliere di Ripafratta. Perché andare a ballare, cercare qualcosa negli altri, quando si può stare tranquilli nella propria stanza, in ciabatte, soprattutto liberi dalle donne?

Antonio Latella, dal 2023 ci propone questa sua versione. In questi tempi in cui tanto calda è la questione della misoginia, ecco spuntare una nuova versione de “La locandiera”, opera che mette in scena la dinamica seduttiva avente origine nella donna, in questo caso Mirandolina, interpretata dalla monumentale Sonia Bergamasco. Personalmente, lo ammetto, ho un debole anche io per Sonia Bergamasco, e vedendola nei panni di Mirandolina non potevo che immedesimarmi nel Marchese di Forlipopoli e il Conte di Albafiorita, interpretati rispettivamente da Giovanni Franzoni e Francesco Manetti. L’interpretazione della Bergamasco era indubbiamente completa. Il lavoro vocale di Sonia Bergamasco è qualcosa di cui si può solo prendere atto, e nient’altro bisogna dire. È ovviamente un’attrice che riesce a dare davvero tanto. E a parte quel tanto, è riuscita a dare anche di più. Perché l’interpretazione che ha fatto di Mirandolina, non giocava sullo stereotipo della gatta morta, civettuola e superficiale. Era molto incentrata sulla disperazione narcisistica. Sonia riusciva a darci perfettamente, un personaggio che nel corso della vicenda si sgretola. Nei suoi drammi interiori, le sue insicurezze. Il suo non riuscire a ricambiare l’attrazione, quando questa le viene rivolta dall’altro. Così ecco che appare il Cavaliere di Ripafratta, un personaggio eccezionale, interpretato da Ludovico Fededegni che lo ha indossato in un cappotto prima e una giacca poi. Abbigliamento simbolico, perché quel cappotto segna un transito in Mirandolina, proprio nel momento in cui sviene isterica, e lui la copre. L’oggetto che segna il momento del suo (del Cavaliere) finire tra le gabbie dell’innamoramento. Momento di fine della resistenza.

Il personaggio del Cavaliere di Ripafratta è centrale, perché rappresenta la completezza delle due parti che sono il Marchese di Forlipopoli, nobile di sangue ma povero, e il Conte di Albafiorita, che invece è nobile di toga, e si è comprato dunque il titolo,. Entrambi sono persi per Mirandolina, le fanno una corte senza dignità, spasimanti nel senso letterale della parola, sempre davanti al suo bancone, in piene contesa e competizione. La mancanza viene invece colmata dal Cavaliere di Ripafratta che odia le donne, non sente il bisogno di niente, non ha mai provato sentimenti nei confronti di nessuna donna. Un tale rifiuto apriori e determinato, porta Mirandolina a provare attrazione, o meglio provare risentimento, come nelle più classiche storielle romantiche. E infatti parliamo proprio di questo, un’opera monumentale che ci parla di qualcosa che un po’ conosciamo tutti e tutte. Spesso il desiderio è un processo narcisistico, che non ama essere corrisposto. In fondo, infatti, che cosa c’è di così diverso da Mirandolina e i suoi spasimanti? Mirandolina vuole amare, lei regge il gioco del Cavaliere di Ripafratta perché in fondo lo conduce anche, sottobanco. Il Cavaliere di Ripafratta già dalla sua prima comparsa, si percepisce resistente a qualcosa che sa essere una sua propria debolezza. Esattamente come lo è per tutti gli altri personaggi. Mirandolina prova attrazione solo sentendo di amare perché non corrisposta. E così si adopera per sedurlo. Pensa a strategie, mette in scena uno svenimento, gioca e conduce il desiderio del Cavaliere a lei. Lui ci casca come un fesso, e da lì inizia a non negare più i suoi sentimenti. Scivolando in una risposta alla domanda di amore che veniva rivolta da Mirandolina. Si sa, una volta risposte, certe domande, si chiudono.

È una commedia molto affascinante. La figura delle nobili che celano commedianti, l’inganno della messa in scena, è uno stratagemma narrativo di Goldoni, che ha qualcosa di sublime. Una messa in scena quella di Ortensia e Dejanira, intepretate da Marta Cortellazzo Wiel e Marta Pizzigallo. Entrambe attrici grandiose. Marta Pizzigallo, con la sua interpretazione è riuscita a afferrare perfettamente il carattere attoriale di Dejanira. È un personaggio comico, perfettamente curato. Anche lei commediante che si finge nobile e che come la sua compagna d’arte è anche una prostituta, come voleva il cliché ai tempi. Una battuta del personaggio di Ortensia ha funzionato benissimo, ed è stata una scena potentissima, perché simulava un orgasmo fino a sfociare in quello che i giovani definirebbero cringe, ma la sua dinamica è stata talmente curata, come una partitura, che è giunta perfettamente alla battuta successiva. Questi giochi sono frequenti in questo spettacolo. Le risate sono centrali, soprattutto in quelle di Dejanira, talmente ben recitate da diventare contagiose. E poi quelle di Mirandolina, che sembravano scritte come partiture su un pentagramma. Motti di spirito come aperture dell’inconscio, avrebbe detto Freud.

I personaggi del cameriere e del servitore, interpretati da Annibale Pavone e Gabriele Pestilli, erano laterali. Il linguaggio usato era molto testuale, ma coerente con il senso. Spesso nello spettacolo ci sono momenti di (ovviamente cercata) confusione tra modernità e linguaggio settecentesco. Tutto è ben definito nella fedelità alla mimesis realistica, la stessa che de Sanctis definiva controrivoluzionaria in Goldoni.

Il Cavaliere di Ripafratta mette in gioco la scelta di Mirandolina, ma nel momento in cui diventa incompleto (cotto, stracotto e biscottato), persa la parte della sua mela di platonica memoria, ecco che lei corre a ubbidire alla scelta del padre. Si sottomette alla legge, dopo aver giocato.

Però quando nella scena finale Goldoni immaginava un’ironia drammatica di Mirandolina, nell’atto di lasciare il monito ai maschi presenti in scena, relativo alla donna e i suoi inganni, forse non si rendeva conto di quanto polarizzato fosse il suo giudizio. Sonia Bergamasco ribalta la questione. Perché alla fine la donna distrutta è proprio Mirandolina. Ha perso tutto, ha perso il suo gioco. Non ha più la speranza dell’amore. Perde la sua giovinezza, perché infatti viene interpretata da una bellissima donna di 58 anni. Questa donna, l’attrice, seduta nel finale davanti al pubblico, anch’essa sola, priva di qualcuno che la faccia sentire completa, anch’essa come i suoi spasimanti, forse tutti innamorati soltanto della (e nella) mancanza, fino a renderla esausta di subire continuamente il loro desiderio frustrato (che in alcune scene arriva fino agli schiaffi che lei subisce), annoiati dalle loro misere nobiltà… questa donna, ci dice qualcosa di ancor più vero, di quanto non volesse ammonirci il buon vecchio Carlo Goldoni.