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La vegetariana al Teatro Astra

di:

scene dal romanzo del premio Nobel per la letteratura del 2024, Han Kang

  • adattamento del testo Daria Deflorian, Francesca Marciano
  • co-creazione e interpretazione Daria Deflorian, Paolo Musio, Monica Piseddu, Gabriele Portoghese
  • regia Daria Deflorian
  • aiuto regia Andrea Pizzalis
  • scene Daniele Spanò
  • luci Giulia Pastore
  • suono Emanuele Pontecorvo
  • costumi Metella Raboni
  • consulenza artistica nella realizzazione delle scene Lisetta Buccellato
  • collaborazione al progetto Attilio Scarpellini
  • consulenza alla drammaturgia Eric Vautrin
  • direzione tecnica Lorenzo Martinelli con Micol Giovanelli
  • stagista Blu Silla
  • per INDEX Valentina Bertolino, Elena de Pascale, Francesco Di Stefano, Silvia Parlani
  • una produzione INDEX
  • in coproduzione con  Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale; La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello in corealizzazione con Romaeuropa Festival; TPE – Teatro Piemonte Europa; Triennale Milano Teatro; Odéon–Théâtre de l’Europe; Festival d’Automne à Paris; théâtre Garonne, scène européenne – Toulouse
  • con la collaborazione di ATCL / Spazio Rossellini; Istituto Culturale Coreano in Italia
  • con il supporto di MiC – Ministero della Cultura



La versione teatrale del romanzo “La vegetariana” di Han Kang, è una delle proposte della rassegna “Fantasmi” del teatro Astra, per la stagione 2024/2025. Ero presente il 29 gennaio, uno di quei giorni della merla che in certi momenti sono stati tanto freddi, e in altri troppo caldi. Certamente la sala era per necessità molto calda, perché Monica Piseddu, nei panni di Yong-hye, si trovava costantemente a toglierseli (i panni) per poi re-indossarli. Un movimento di azioni che creavano il ritmo della narrazione, pregna di quel vuoto tipico delle storie coreane. Mostrava il suo corpo magrissimo, segnato da quella che era la scelta della protagonista, giustificata dalla frase “ho fatto un sogno”. Il marito infelice impersonato da Gabriele Portoghese, era ben presentato nell’incapacità di scorgere la bellezza di sua moglie, diventata solo oggetto di un desiderio negato, preso nella sua fisiologica difficoltà ad accettare quella normalità diventata morbosa. Una donna che un giorno decide di gettare tutta la carne contenuta in frigo, per prendere la decisione di diventare vegetariana. Una scelta che nella storia conduce la protagonista verso la follia. Quel che subisce il marito è però soprattutto la consuetudine, soffocato dalla quotidiana stranezza di sua moglie.

Poi c’è lo sguardo dell’artista, il cognato, interpretato da Paolo Musio, che dopo essersi eccitato alla visione del suo corpo nudo, inizia a fantasticare di fare sesso con lei dopo averla dipinta di fiori. La scena è realizzata con una live painting proiettata con episcopio. Si tratta di un altro sguardo, capace di desiderarla, nella materializzazione di un sogno. Così quella frase “ho fatto un sogno” si capisce nella sua forza allegorica. La protagonista progressivamente inizia a identificarsi in un albero con le radici che sono braccia. Il bisogno di radicarsi è il suo sogno, ma la porta da una realtà a un’altra, che risiede nell’utopia sintomatica.

Colpisce il posizionamento verticale del letto, dove viene vista la quotidianità dei due coniugi come invitare alla suggestione del pubblico dall’alto. La moglie del cognato, interpretata dall’attrice e regista Daria Deflorian, suggerisce sempre uno sguardo esterno, quello di chi prende coscienza del suo disturbo mentale e che in quanto sorella, incapace di accettare la fatica emotiva che Yong-Hye le riverbera, decide di rinchiuderla in un ospedale psichiatrico. Sembra che in fondo tutti siano accomunati dalla difficoltà ad accettare la realtà materiale, ma ostacolati dalla conflittualità dell’alterità. Ciascuno effettivamente radicato nel proprio bisogno di fuga.

È uno spettacolo che ci parla di tante cose, tra cui anche la medicalizzazione che risponde a un bisogno di equilibrio sociale. Un elemento importante è la macchia mongolica, che rappresenta appunto l’evidente particolare che insieme attrae l’attenzione del cognato e al contempo si presenta come anomalia. Quello è il segno centrale. Perché la stessa anomalia allontana il marito, e al contempo avvicina il desiderio sessuale del cognato. Ma l’equilibrio famigliare viene rotto da questa attrazione. È una rappresentazione fortemente angosciante, e al contempo perfetta. Una narrazione prosaica molto lineare e al contempo realizzata con splendide trovate scenografiche. La recitazione è molto intensa, tant’è che viene da domandarsi quanto vuoto debba avere creato attorno al proprio respiro il cast, che nonostante sia composto di soli italiani, riesce a evocare perfettamente le caratteristiche orientali dei personaggi. La lunghezza della rappresentazione può diventare faticosa, ma andando avanti il ritmo accelera. Sembra di rivedere in forma teatrale, quei film coreani che hanno segnato un certo immaginario contemporaneo. Una degna rappresentazione di un testo meraviglioso di un’ autrice che nel 2024 ha meritato il suo Premio Nobel.