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Le serve di Genet, al Teatro Gobetti di Torino

di:

Le serve

di Jean Genet
con Eva Robin’s (Signora), Beatrice Vecchione (Claire), Matilde Vigna (Solange)
regia Veronica Cruciani
traduzione Monica Capuani
adattamento Veronica Cruciani
scene Paola Villani
costumi Erika Carretta
drammaturgia sonora John Cascone
disegno luci Théo Longuemare
movement coach Marta Ciappina
assistente alla regia Ilaria Costa
sarto Lucio Imperio
fotografie Laila Pozzo

Visto a Torino, Teatro Gobetti, il 24/Febbraio/2024

Così, di sorpresa, ritorna in scena Genet. Autore che ha rinnovato, nelle sue opere, gli sguardi diretti alle zone marginali dell’animo umano , donando una luce non corrotta dalla morale, seppure morbosa, capace di narrare oltre all’erotismo anche il crimine (dimensione vicina alle attitudini dell’autore noto per la sua tendenza al furto), facendone poesia surrealista, realismo dell’inconscio. Come ne Le serve, tradotto da Monica Capuani, in questo caso diretto da Veronica Cruciani, regista e docente dell’Accademia Paolo Grassi di Milano, spettacolo in cui la luce segna le scene in maniera incantevole, come quell’attimo in cui compaiono Beatrice Vecchione e Matilde Vigna, all’inizio del secondo momento, quello intitolato “il deserto del reale”, dove si colloca la parte centrale che vede la presenza della Signora, impersonata dalla sempre bellissima e bravissima Eva Robin’s. La struttura dello spettacolo è divisa in tre, dove oltre alla sopracitata didascalia, c’è quella della prima parte “Proteggimi da ciò che voglio” e la terza “saremo libere?”. Sembra quasi una lettura psicanalitica. Non sarebbe poi del tutto improbabile, considerato che Lacan studiò il caso delle sorelle Papin da cui Genet prese ispirazione per la realizzazione di questo dramma. Si tratta del primo testo teatrale scritto da Genet, nel 1947, ispirato appunto al fatto di cronaca avvenuto nel 1933, quando le sorelle Papin uccisero madre e figlia presso cui lavoravano come domestiche. Un atto che fecero insieme, con inaudita ferocia, e che perciò suscitò l’interesse di molti studiosi. Jaques Lacan, dunque, ne trasse studi sulla paranoia, associata all’omosessualità repressa delle due sorelle e la loro attrazione incestuosa reciproca che le ha portate a una simbiosi letale, in una sorta di superio condiviso, bramoso di rivoluzione, attraversata da una paranoia erotizzata . Sembra di vedere in quel Reale, proprio la dimensione che Lacan alternava all’immaginario e il simbolico. Ma qui si articola nella coscienza del proprio desiderio, da cui essere protetti, come alla ricerca di un limite, per poi arrivare al Reale, rappresentato appunto dall’incontro con l’oggetto desiderato (seppure questo corrisponda a qualcosa che si vuole annientato) e poi l’agghiacciante resto di quel vuoto e angoscioso rituale. La teatralità del quotidiano che vivono i personaggi immaginati da Genet, articolata in costanti cambi di parte di Cler e Solange (rispettivamente Beatrice Vecchione e Matilde Vigna) si manifesta nell’alternato indossare i panni della serva e l’altra della padrona, e viceversa, pianificando l’omicidio della signora presso cui lavorano. Il loro piano è drammatico, nel senso letterale della parola. Perché si forma, come discorso, all’interno di un tempo cronometrato, dove suona la campanella per dire quando scade il tempo in questa simulazione d’omicidio. È come se la tempistica di questo gioco rappresenti in realtà l’ allenamento a un omicidio perfetto, un po’ come quelli che raccontava Thomas De Quincey, dove la paranoia diventa la drammaturgia dentro cui capitolare le intenzioni e le ragioni, in un senso ristretto che per reggersi necessita di una disposizione coreografica delle azioni. Proprio come ha fatto Veronica Cruciani.

L’ allenamento alla sovversione, segue un processo di drammatizzazione, interiorizzazione. La matematica inconscia della creazione drammatica, dove c’è un ritmo centrale a cui ci si accorda, come ad utilizzare uno strumento introiettato. E qui emerge bene, da questa rappresentazione, come possiamo sussumere il senso politico, legato alla rivoluzione. Entrambe le due sorelle vogliono sovvertire il potere, per impossessarsi dei capi di abbigliamento della Signora. Nella prima parte Claire, interpretando la signora, usa una voce androgina, mentre quando entra nei panni di sé stessa, ha una voce che ricorda il doppiaggio di Alice nel paese delle meraviglie della Disney. La maestria vocale di Beatrice Vecchione, sta nei cambi di registro che determinano la scissione del personaggio di Claire. Il suo conflitto interno è speculare a quello di Solange. Entrambe le sorelle sono sdoppiate, in un gioco di simulazione alternato, che rimbalza su sé stesso, perché questa rabbia sociale è slegata dalla collettività, si muove nell’inconscio che le domina. E in realtà quel dominio ce l’ha proprio la Signora, che immagina loro (come faceva notare anche Sartre) come miserabili. Infatti costantemente lei dichiara, anche nelle rappresentazioni che loro ne fanno, di essere odiata da loro. Con quel vago senso di colpa borghese, lei da per scontati i loro sentimenti negativi, perché lei è consapevole della verità della loro servitù.

Quando si presenta l’occasione di porgere alla Signora la tisana, questa la rifiuta, sminuendo del tutto il tentativo di omicidio, commentando con sprezzo di essersene accorta, ma con fredda ironia, quasi bonaria. Così come il commento che loro riferiscono, fatto dalla Signora quando definisce “disadorna” la casa quando non è in ordine. E la loro rabbia, la sofferenza che provoca loro il pensiero che la Signora sia in fondo buona, e che loro siano davvero gli scarti morali. Quindi anche il loro, senso di colpa. Una specularità che diventa però schismogenesi, ovvero che conduce al parossismo di un conflitto che nel suo crescere, può risolversi solo con la distruzione di una delle due parti (se non anche di entrambe). E in questo caso è così. Non spoilero il finale, ma posso dire che Veronica Cruciani, nella sua regia e adattamento, ha fatto emergere in modo chiaro quella che fu una riscrittura di un fatto di cronaca. Perché Genet cambiò l’andamento dei fatti. Provò a immaginare una via alternativa, un po’ come fece Tarantino nel film che raccontava l’omicidio di Sharon Tate. In ogni caso il finale è come se fosse sempre lo stesso. Perché le vittime sono le serve, nella loro alternare la simulazione. Infatti viene messo in scena un legame sado-maso, morboso, dove è proprio la messa in scena a donare loro il setting. La ripetizione di questo atto è la condanna, come nell’assurdo Sisifo di Camus.

È uno spettacolo che ad oggi è più che attuale, per il suo porgere l’attenzione al sottoproletariato, privo di futuro, imprigionato nel loop del proprio desiderio frustrato. Dove non vi è rivoluzione perché si abbandona la collettività, per entrare a far parte di quel mondo dei reietti, controrivoluzionari nel loro invidiare il potente di cui vorrebbero prendere il posto, e destinati alla tragedia.