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Netamiau perché sei morta – Ingiunzione a una bambina di Marco Gobetti al Fringe festival

di:

21-05-2024

testo di Marco Gobetti
con Marco GobettiChiara Galliano | recitazione, violoncello, voce
co-direzione Chiara Galliano, Marco Gobetti
con la collaborazione di Anna Delfina ArcostanzoDiego Coscia, Beppe Turletti

Marco Gobetti, drammaturgo, attore e regista che guida l’associazione Lo Stagno di Goethe, ha partecipato al Fringe 2024 di Torino, il festival itinerante che da più di dieci anni continua a crescere, grazie al lavoro di tante persone che si sono susseguite negli anni. La rassegna itinerante, distribuita in diversi luoghi della città di Torino, promuove il teatro indipendente e anche quello off, con costanza e dedizione. Il suo spettacolo Netamiau perché sei morta si è svolto presso lo spazio TINGELTANGEL. Sulla scena anche Chiara Galliano alla sinistra di Marco Gobetti, vista dal pubblico. Coperta dal suo violoncello. Un microfono davanti. A destra Marco, con i fogli in mano. E inizia il teatro di narrazione che nel corso del tempo, la nota compagnia torinese ha esplorato in lurgo e in largo, in particolare con l’utilizzo di spazi non regolari come piazza Carignano a Torino, dove abitualmente è possibile incontrarli su un palco libero che è quello della strada.

Il teatro di Marco Gobetti è diviso su due piani, che sono quello autoriale e quello attorale. Non è una scissione, però. Agiscono in contemporanea. I fogli che Marco tiene sul palco, sono tutto ciò che serve perché qualcosa possa essere narrato. Nel frattempo la voce costituisce il vero piano d’azione, perché i vari registri che lui utilizza in scena, le differenziate aree di risonanza, poggiano su metronomi scanditi dal medesimo testo. Sembra di vedere realizzato il Teatro di Parola, teorizzato da Pasolini: un rito teatrale che trascende la politica, che cerca il proprio spazio non nell’ambiente quanto nella testa.

In questo caso la storia è volutamente oscura. Da decifrare ascoltandola, in una musicalità e ritmica di fonemi che formano frasi simili a partiture. Il libretto all’entrata (già melodrammatico), è un segnalibro in cui è contenuto il calendario del 2024, e in più una legenda che spiega le varie figure allegoriche e corrispondenti attinenze alla realtà. Ad esempio il Regno degli ulivi bassi, che è la Palestina, mentre quello degli ulivi alti è Israele. È incredibile, non voglio vantare chissà quale acume, ma guardando lo spettacolo, la questione mi è parsa chiara. Ho ricevuto successivamente conferma nel segnalibro. Piuttosto bisognerebbe rendere nota di quanto Marco Gobetti, sulla scena, abbia portato chiarezza muovendosi ai limiti del comprensibile, scelta interessantissima, che riecheggia certe antiche tradizioni giullareshe, nella forza politica del linguaggio che si fa beffa di sé stesso, per aprire la vera connessione fra gli uomini. Giocando su questa parodia operistica, è rivolta al pubblico la novella che non stanno seduti per vedere, ma per sentire.

La narrazione è tanto estesa. Si muove in riferimenti alla lettera ebraica Kaph che ha valore numerico 500 e che moltiplicata per 4 fa 2000. Questo numero, 2000 rappresenta una mano aperta, ma fa anche riferimento alle bombe sganciate da Israele sugli abitanti palestinesi, di 2000 libbre) . Il significato è surreale, opaco, anche un po’obliquo (se vogliamo intenderlo come oracolare).

Il riferimento al fritto dell’inizio e i vari fritti che vengono menzionati, corrisponde alla nascita dello Stato di Israele, alla distruzione di 418 villaggi palestinesi con stupri, massacri, avvenuta nel 1948. Così la linea del tempo, è quella di avanti fritto e dopo fritto, e il giorno 7 ottobre 2023 è il 75 d.f.

La presa di posizione di Marco Gobetti è forte. Perché va a ripercorrere il conflitto, con uno sguardo che non omette le radici. Israele in quel periodo si impose come Stato, rivendicando il proprio diritto a esistere, con l’attacco e l’eliminazione della controparte. Una brutale colonizzazione voluta da diverse democrazie mondiali, con l’occupazione e il colonialismo che sempre più hanno ridotto il territorio palestinese, davanti agli sguardi conniventi o indifferenti del mondo attorno. I sionisti che scrivono sui giornali italiani, accusano chi si oppone a questa ideologia, di essere anti-semiti, di sognare la cancellazione d’Israele. Così c’è chi specifica, a voler fare il diplomatico, che l’unica vera contestazione è rivolta al governo attuale di Netaniahu. Invece Marco qui si pone onesto, con un grande coraggio ma anche volontà di martirio. Il suo teatro è anti-eroico, perché si pone come una satira oscura. Non ci indica Israele come un nemico. Non brama la sua scomparsa. Ci spiega semplicemente che quella terra è condivisa da fratelli che non si riconoscono come tali.

Il sionismo ha avuto diverse teorizzazioni, prima di essere applicato a livello politico. Ai tempi in cui Karl Marx inventava la più importante analisi del capitalismo e definiva la lotta di classe, venivano scritti testi come Roma e Gerusalemme, di Mosè Hess dove si teorizzava un socialismo fondato su basi spirituali. Nascevano i primi fondatori del Sionismo. Dal 1948 inizia la storia dello Stato d’ Israele, che segue come una linea diretta questa ideologia, la prosecuzione del concetto di Stato Nazione, che rivendica una promessa elettiva. Come diceva Cioran, che è stato citato anche da Serena Sinigaglia nel suo Le Supplici “l’uomo è il cancro della Terra”.

Nel gioco di linguaggio, che segue spesso il ritmo del violoncello e la voce della bravissima musicista e attrice Chiara Galliano, emerge l’allegoria della conflittualità tra le due nazioni, narrato come scontro fratricida, dove i semiti si fanno la guerra vicendevolmente, e la loro unica salvezza sarebbe forse trovare una nuova lingua, che vada oltre questa catena di violenza su cui si è fondata. Infatti il personaggio del Mago cerca di comunicare con una bambina, sorda, che non può sentirlo. È un’immagine di grande potenza, quasi un’iconografia. Nella loro lingua raccontano di bombe che “craterano”. Netamiau (con il geniale gioco di parole tra il dittatore Israeliano, e il verso di un gatto) è il nome di una bambina che si vede arrivare addosso la bomba che sta cantando “Netamiau fan le libbre in coro”. La bomba va a distruggere la tenerezza, l’innocenza. In quel nome muoiono tutti. Muore Netaniahu e muore Netamiau. Muoiono insieme, perché risiedono nella stessa parola. In effetti se paragoniamo la parola Netamiau con Netaniahu, che cosa hanno di comune a livello grammaticale? La radice. Per il resto, Miau è solo una desinenza. Questo linguaggio, dunque, non deve unirsi, non ne ha bisogno. Eppure si sfalda, si disintegra. Perché la guerra è autodistruzione, seguita dalla convinzione psicotica di essere stati i vincitori, mentre si è solo parte frantumata, nella sconfitta che non accoglie sé stessa, quindi doppiamente tale. Come nelle grandi tragedie, negli scontri fratricidi di Tebe. Così è giusto, è potentissimo, il resto è letteratura.

Non voglio adulare Marco Gobetti, perché quanto dico è sincero e dovuto. Il suo lavoro artistico è per me da tanti anni un riferimento. Perché sento di avere imparato tanto da lui, facendo lo spettatore. Non posso definirlo un maestro, perché non è stato mai mio insegnante. Però ho visto tanti suoi spettacoli. Quello su Sole e Baleno, o su Gramsci, la Tragedia della libertà , i suoi innumerevoli spettacoli in piazza Carignano. Lo vedevo ai tempi in cui andavo in quel triste edificio che è Palazzo Nuovo, li di fronte, con un cartello in basso, che recitava. E le persone lo ascoltavano, e non si era andati a controllare chi fosse su Wikipedia, ma si sapeva già che era uno importante.

Nel suo teatro, racconta ciò che scrive. Non si limita ad essere uno scrittore, ma anche attore dall’arte curatissima, precisissimo, con una gestione timbrica e una dinamica vocale pazzesche, che riesce a creare il teatro senza scenografia. I luoghi sono collocati in un altrove, ci si arriva ascoltando le voci in scena, che accompagnano come una forza invisibile, verso visioni limpide.

L’altra persona in scena è Chiara Galliano, che accompagnava la narrazione al violoncello, con ritmi e fraseggi contrappuntistici, canti e luce allucinata di mediorienti trasfigurati.

E sempre il rimando alla celebre canzone del Trio Lescano, Maramao perché sei morto, che viene modificato con Netamiau perché sei morta. Così ecco che vediamo la figura del gatto, che era il soggetto della canzone originaria, cantato in coro con luttuosa e affettuosa leggerezza.

Così avviene con la bambina. Questo è il nostro sguardo. Si ferma alla tenerezza, e non riesce a cedere al grido di rabbia che il disastro attuale potrebbe comportare. Perché in fondo a cosa ci servirebbe quel grido. Dovremmo forse voler chiedere vendetta? Perpetrare la violenza? E così resta la forte drammaticità dello sguardo di una bambina che muore. Una sconfitta che è l’unica arma rimasta. Una tragedia che saremmo capaci di comprendere solo qualora ci riguardasse. Qualora i figli di questi italiani, fossero davvero in pericolo, perché posti di fronte a un nemico che intende eliminarli, perché ha intenzione di fermare la nostra discendenza. Forse lì capiremmo, il vero significato della canzoncina Netamiau perché sei morta.

Un altro elemento che ho trovato eccezionale nella sua semplicità, era il gioco degli errori che continuamente veniva fatto. Ad esempio mentre Marco Gobetti narra, Chiara che si alza e si pone davanti al microfono, immobile. Sembra che stia per dire qualcosa ma non dice nulla. Lì si crea il dramma. Poi inizia a vociare, ma non riesce perché ha la tosse. Poi tossisce anche Marco Gobetti. E iniziano un ritmo. E così via.

Vedere gli spettacoli di Marco Gobetti, dona una forza incredibile per chi pratichi le arti drammatiche, (senza escludere quelle marziali). Pone l’evidenza di quanto andare in scena sia possibile con nulla. È una scrittura di scene. Non c’è bisogno per forza di far scendere elicotteri dal soffitto, o bruciare pianoforti. Il teatro può esistere in ogni luogo. E quando questo concetto viene portato a un festival come il Fringe, acquista un ulteriore significato. Perché ci dice che il vero teatro può esistere, addirittura a teatro.