di: Luca Atzori
Se c’è una rassegna che, ad ogni spettacolo, conferma scelte pienamente aderenti al tema portante, è proprio quella di Fantasmi al Teatro Astra. Fuor di lusinga, è una delle rassegne più originali cui ho avuto modo di assistere nel corso di questi anni. Da via Rosolino Pilo, appare dalla porta in vetro il foyer. Da destra si accede alla sala spettacoli. Quella sera dell’8 aprile ero in anticipo, però mi sono sentito in ritardo, perché il Polittico degli infami, della compagnia Anagoor, era già iniziato. Una scelta della compagnia. Spesso mi accade di assistere a spettacoli che prendono ispirazione dalla suggestione artaudiana per la quale vita e teatro non hanno confini. Anagoor è una compagnia eclettica e sperimentale. Gli elementi stilistici sono variegati, perché all’interno il loro lavoro è sempre stato plurale, metodico nel suo riuscire a mettere in pratica la creazione collettiva. La regia è di Simone Derai. L’idea di messa in scena è vasta, sfora nell’happening con mix di varie discipline tra cui il canto, l’esposizione divulgativa dell’arte, la stilizzazione estrema della biomeccanica ad uso della commedia dell’arte, il video, la scenografia multimediale, la recitazione.
Appena si entrava si sentiva una pervasiva musica noise, accompagnata da una scena che vedeva un mimo e una operatrice body painter che gli applicava il colore sul corpo, atto seguito dalle reazioni disturbate di Piero Ramella (oltre che mimo anche co-regista): automa sinistro, con tratti che ricordano Arlecchino, ripetitivo e meccanico, come lobotomizzato e insieme irritabile in maniera precisa, con reazioni animali di encefalo rettile.
Questo spettacolo è ispirato a un romanzo “il trittico dell’infamia” di Montoya e diciassette incisioni di Theodore de Bry più un’opera di Dubois “il massacro di San Bartolomeo”. La rappresentazione ha qualcosa che ricorda una conferenza, o anche una lezione universitaria. Le incisioni sono proiettate, e Marco Menegoni ne espone i dettagli e retroscena. Sono immagini molto crude, incise nel sedicesimo secolo, e raccontano le barbarie compiute dai colonialisti nelle Americhe, a danno degli indios. È la rappresentazione di un genocidio. Theodore de Bry è riuscito a essere davvero preciso, nonostante non si sia mai spostato dall’Europa. Non aveva assistito a queste torture, eppure è riuscito a creare immagini che ancora oggi sono impressionanti.
Indigeni a cui sono stati tagliati il naso e le labbra, bruciati vivi, impiccati, bambini scaraventati contro il muro o cotti al forno vivi. Atti di cannibalismo tra indigeni affamati che mangiano corpi morti di altri indigeni. Fuoco ovunque. Case incendiate in cui vengono inseriti gli indios dalle fineste. Tutto questo ad opera dei cristiani, animati dal loro progetto di evangelizzazione dei primitivi. Sempre presente infatti anche la figura crudelissima del prete che dispone l’estrema unzione.
Generalmente associamo l’orrore del genocidio a quello nazista. Eppure per diversi secoli si sono svolti atti analoghi. Ad esempio nell’Africa, i senegalesi trasportati dall’isola di Gorèe all’America, in condizioni pietose. E appunto il genocidio degli indios, compiuto da diversi europei, in questo caso gli spagnoli conquistadores. Quel che emerge è che la conquista viene celebrata con l’annientamento dell’altro. La distruzione dei loro corpi. Emerge anche l’appropriazione della loro cultura, trasferita nel trend esotico. Distrutti i corpi ma conservato il fascino della loro cultura, rovesciata nel kitsch. Colonizzazione, riappropriazione, parodia. Che cosa deve spaventarci di ciò? Beh che quel lascito culturale ci appartiene come uomini, ma soprattutto come europei. Il suprematismo si nutre della distruzione dei corpi. Sospende la propria morale “superiore” perché il fine giustifica i mezzi. Altro elemento che resta impresso, è il dato storico riferito alla legge che in Spagna, ai tempi, venne istituita per evitare la schiavitù e le torture. Mentre i militari coloni applicavano la loro voluttà assassina, in Spagna si lavavano la coscienza mettendo leggi che condannavano quanto stesse accadendo, pur senza impedirlo. È qualcosa che vediamo tanto anche oggi. L’ipocrisia di chi addirittura si arricchisce sull’umanitarismo, mentre per reggersi deve cercare la connivenza con i causatori del disastro.
Nella seconda parte dello spettacolo Theodore de Bry dialoga con Francois Dubois, artista che illustrò la famosa strage avvenuta nella notte tra il 23 e il 24 agosto a Parigi, ad opera dei cattolici contro gli ugonotti. Il dialogo si svolge tra due schermi, in lingua tedesca. Forse per il riferimento alla sua fuga in Svizzera, in quanto anch’egli ugonotto. Stesso discorso per Theodore de Bry, che si stabilì a Francoforte dove morì.
La questione che viene posta è “qual è la responsabilità dell’artista davanti a un genocidio?”. L’atto voyeuristico di rappresentare la morte, che portata ha? Simone Derai sostiene quanto segue: «Lo spettacolo non è un adattamento del romanzo, è una deflagrazione delle domande che pone. Montoya è uno scrittore colombiano espatriato in Europa. Ha un punto di vista diagonale sul mondo e sul colonialismo. Nel Trittico dell’infamia trasforma in letteratura alcune questioni fondamentali sulla rappresentazione pittorica. Il suo sguardo tiene insieme lingue e forme diverse per interrogarsi su come guardiamo il mondo e come lo riduciamo quando lo traduciamo in arte. Questo ci interessava». Il romanzo di Montoya è infatti elencativo, noioso. Ricorda le descrizioni di De Sade, le centoventi giornate di Sodoma o Juliette, dove venivano descritte con minuzia le atrocità, una dopo l’altra. Perché il fine è quello di documentare, mostrare, quanto avveniva in un angolo osceno del mondo, in un dietro le quinte fatto di abominio, ma che ci è giunto solo tramite rappresentazioni pittoriche realizzate prevalentemente per trasmissione orale . Il privato, restituito allo sguardo pubblico, tramite il racconto. Du bois si domanda “che cos’ha a che fare il colore con il dolore?”. L’arte può rappresentare fino a un certo punto. Quando vuole dirci che sta mostrando il tutto nella parte, diventa ideologia. È questo l’enigma di Du bois, che sanguinante di rabbia e dolore, in seguito alla morte della moglie e del figlio, rappresenta questo orrore domandandosi se abbia più senso per un artista descrivere solo l’armonia e la bellezza. Secoli dopo, con la demonizzazione dell’arte degenerata, con l’emergere dell’espressionismo, della dodecafonia, delle varie Guernica etc, potremo confermare l’angoscia nell’arte, non ha scioperato il suo compito, anche se è sempre più sommersa di censura estetica, visiva, di fallacia autoritaria da parte di un potere che vuole nascondere l’orrore che anche oggi ci tocca compartire. Questo spettacolo ci illustra la strada che abbiamo dovuto seguire, storicamente, per arrivare dove siamo oggi, suggerendoci l’esistenza di un eterno osceno, scomodo. La questione va posta in una zona liminare tra la rappresentazione spettacolare e sensazionalistica (di cui oggi sono pieni gli instagram vari) e l’arte.
Lo spettacolo ha ereditato da Montoya la ridondanza, in alcuni momenti l’ho trovato eccessivamente lungo (superava abbondantemente le due ore). In fondo però, quando uno spettacolo è bello, ma lungo, si fa riferimento solo a qualcosa di personale. Una fretta quotidiana, per la quale si sa che la mattina bisognerà svegliarsi, che i tram a Torino non passano più. Ho comunque affrontato il ritorno a casa con grinta. E il giorno dopo ero più riposato di quanto avrei pensato. Sarà l’effetto di questo teatro della crudeltà multidisciplinare, multilinguistico e delle sue suggestioni audiovisive?