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"Ledi emotional day" è la rubrica del ledi diario di bordo in una giornata gheriglio. Dentro è scatola delle meraviglie, non sai mai cosa aspettarti ma qualcosa è sempre lì a tremare nell'ombra.

Ledi Emotional Day #8

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Su questo otto, giunto dopo la festa delle uova, rigurgito un racconto senza budellosi ragionamenti e strazianti lamenti di premessa premeditata. Non posso fare sforzi di alcun tipo, al momento. Trucchetto del genietto è infatti attingere a mani piene e vuote da archivi oscuri e inospitali per confezionare abiti di parole nuovi di zecca. Ecco qui Oscar e Gilda, due personaggi incredibili. E chissà, nel prossimo ledi emotional, il NOVE (!) ci metto la dinamite. Al momento sono come un vermetto che si dimena appeso all’amo. Pare sia la mia condizione permanente e a dire il vero vorrei pure rasserenarmici, così, conficcata e trafitta, un pò più zitta. Non voglio più farmi ascoltare né ciarlare, perciò eccovi in pasto persone finte più interessanti e succulente. Perché “quando a una parola faccio fare un lavoraccio simile, la pago sempre extra“. Mi piace friggere l’uovo, soprattutto se nella stessa padella devo metterne almeno un altro e specialmente se questa azione è accompagnata dal burro e non dall’olio. Non mi piace cucinare, ma fare le uova si, tantissimo. Tanto l’uovo si mangia pure crudo, una volta che cade non lo rimetti insieme, puoi solo leccarlo e non sarà completo quello che riuscirai a ingoiare, ne resterà sempre un pò a terra perché la sua consistenza è quella che conosciamo. Adesso mi fermo e contemplo un vuoto diverso, quieto e strano. Dentro quel vuoto avverto un mio personale regresso cognitivo che ha rimosso tante porzioni di memoria in modo probabilmente strategico (mi sento fluttuare e praticamente quasi più nulla è nella mia lista di cose importanti, leggerissima) e sovvertito alcune convinzioni inventando un altro lato della medaglia, dove batte il sole quando “di là” è buio. In questo modo al buio non ci sto più artificiosamente; è come se la mia mente avesse creato un laboratorio con luce artificiale h24 per rimuovere le tenebre altrimenti inaffrontabili. Possibile pure che io stia dicendo tantissime sciocchezze, ma fatevi questo film con me. Se hai paura del buio e non c’è nessuno che ti prende la mano per starci dentro, paghi triliardi di luce artificiale così stai sempre alla luce. Chiaro? Trattatemi bene Oscar e Gilda. Bacini, Ledi.

Il mio pensiero non ha più importanza, nemmeno per me. Se volessi usare un termine di paragone per stabilire una scrittura, adesso mi direi di me a me stesso me che sono uno stagista pigro. Gli stagisti pigri non fanno molta strada, anzi, tendono forse a divenire presto rognosi e invidiosi: hanno tempo e modo per credere di essere migliori degli altri che hanno possibilità di esprimersi e lavorare con incoraggiamenti collettivi di una società ben disponibile a tutto ciò che la mente può generare e che non è mai nuovo. E’ sempre qualcosa che lo stagista aveva già pensato in un altro tempo e che non ha mai avuto modo di compiere. Allora supponiamo che lo stagista infelice provi continuamente a trarre soddisfazione dall’oblò che si affaccia sul mondo. Lui è instancabile, infaticabile e mai perde l’incanto. E’ generoso, o almeno è convinto d’esserlo. Non teme mai che la sua inutilità pesi sul grande gruppo che ha in mano il destino di ogni cosa bella. E parla e mangia e ride e beve. Si fida di apprendere senza sosta, si fida degli altri e ammira il tempo che ha a disposizione in un futuro dipinto su un grande sfondo da palcoscenico. Ho trovato un maschio che non mi concede tregua anche quando mi chiude ogni porta per proteggersi dal mio vortice di nevrosi dementi e brillanti. Mi gusta l’odore del suo buco e mi gusta il merletto del suo ano che la mia lingua da gatto vorrebbe succhiare e leccare sempre, ma non è mai abbastanza e per lui è spesso già troppo. Quando sento che sta per picchiarmi il terrore e l’eccitazione sono enormi e vorrei lanciarmi da una terrazza avvolto da nubi di fiori e droghe. Io però penso di fare un salto alla stazione e prendere un treno e andarmene un po’ affanculo, come fanno tutti per “rinfrescarsi le idee” – che pratiche buffe in questa fogna immensa, come se non fosse già abbastanza un bel bidet con acqua fresca.

Salgo sul treno ed è un treno di quelli che sogno io, pazzerello, scansafatiche e sempre avido di stanchezza e delirio. E’ un treno notte bellissimo e lo vedo come quello di Agatha Christie e poi lo vedo come quello di Aldo Lado e poi lo vedo come disegnato. Nella cabina con me c’è una donna, si chiama Gilda e appena entro mi chiede di farle la pipì addosso. Le dico che non devo pisciare e le dico che voglio dormire e che mi piacciono gli uomini e che mi piace berla, la loro. Io mi chiamo Gilda ciao piacere. Non le rispondo e salto sul mio giaciglio e prendo il mio taccuino per fingere di scrivere e di essere molto impegnato. Gilda tira fuori un oggetto luminoso e affascinante. Reprimo il mio interesse e resto intento sul taccuino, ma il mio sguardo la sbircia senza sosta. Improvvisamente Gilda si china sul prezioso oggetto e a quel punto accade qualcosa di stupefacente. Le narici della donna si dilatano spaventosamente e due uova di discreta dimensione iniziano a pulsare verso l’esterno. Lei sembra spingere e vedo che è paonazza. Sono sconvolto, ma non muovo un muscolo. Le uova vengono dolcemente depositate nei piccoli vani dell’oggetto splendente che lei sostiene tra le mani. Ripete questa operazione altre tre volte per un totale di sei uova. Poi mi guarda e mi chiede se ne gradisco una, sono freschissime e ancora calde. La fisso, non riesco a parlare. Gilda mi dice che quella che contiene le sue uova è un’oviera dell’Ottocento in rame, con cucchiaini in ottone per evitare l’avvelenamento. Gilda mi dice che ha molte oviere con sé, tutte ricevute in dono da amici e parenti. Mi guarda e mi esorta a non essere timido. Mi avvicino e mangio un uovo, il primo delle sei uova che alla fine poi mangiai: tutte. Mentre Gilda mi raccontava la sua storia.

Gilda aveva iniziato a produrre uova dal naso, da entrambe le narici. Mentre parla mi specifica che non è nata così. Aveva un naso fecondo e ne era felice. L’inizio non era stato gradevole, ma era passato. Le uova che produceva dalle sue narici erano deliziose e tutti ne mangiavano in quantità, facendola sentire utile. Tutto era iniziato per un capriccio di Amanda, la figlia di Piero, il suo amato padrone e uomo a cui non negava nulla. Amanda un giorno le disse: “dato che mio padre ti chiama troia, cagna, porca, maiala, schiava, puttana, etc, vorrei vederti con tutti i buchi sfondati, voglio vederti fare pompini col naso per restituire anche al tuo aspetto la coerenza del concetto”. Gilda non avrebbe voluto, ma non poteva indispettire Amanda perché era un’adolescente viziata e aveva già chiesto il consenso al padre per il suo nuovo passatempo. Così, Amanda fece pazzi acquisti, prendendo piccoli falli da narice, pompette per dilatare le stesse, ganci per tenderle e aprirle e tanti piccoli oggetti adatti a raggiungere l’adorato obiettivo. Gilda passò mesi dolorosi, con il naso livido e contuso, forzato da stimolazioni accanite e sollecitazioni insopportabili. Ogni giorno veniva sottoposta a sessioni spericolate e Amanda aveva una dedizione inarrestabile. Quando il naso di Gilda giunse al traguardo voluto, Amanda cominciò a invitare a casa i suoi amici per giochi sessuali estremi con i buchi nasali della sua vittima preferita.

Durante questi incontri Amanda si premurava di masturbare Gilda mentre gli altri le scopavano le narici con gli strumenti destinati a quell’uso. Gilda, obbedendo sempre alla sua fedeltà e sottomissione verso Piero, dopo tanto dolore e umiliazione, finiva sempre e comunque per godere. Aveva un viso molto più suino e iniziava pure a piacerle: si era abituata e affezionata. Piero apprezzava molto il suo cambiamento e quando fottevano la esortava a fare i versi del maiale. Così, un bel giorno, Gilda si svegliò con tante piccole uova sul petto e intorno a lei nel letto. Poi si accorse che i grappoli tondi e bianchi le uscivano dai buchi in faccia e correndo allo specchio vide gli ovetti partoriti dalle narici larghe e rosse. Corse felice da Amanda e Piero che esultarono insieme a lei, felici di avere un animale produttivo in casa. Da quel giorno, ogni ovulazione nasale di Gilda veniva monitorata da padre e figlia in modo da poter organizzare cene e aperitivi speciali in coincidenza del puntuale rilascio degli ovetti numerosissimi e buonissimi. Nel tempo, Amanda aveva notato che in base all’alimentazione di Gilda cambiavano sapore, dimensione e colore; così iniziarono a lavorare sul perfezionamento e le varietà possibili di quelle magnifiche uova. Amanda desiderava che fossero più grandi perché vedere lo sforzo e il dolore di Gilda nella spinta era un piacere diverso da tutti gli altri piaceri che conosceva. Le stava accanto mentre fuoriuscivano le uova e sussurrava o esclamava “più grandi! Forza! Ancora più grandi! Spingi! Ancora, falle grosse!”, mentre Gilda grugniva e mugolava nel tormento del parto. A quel punto io stavo mangiando l’ultimo uovo con appetito e smarrimento. La guardo e in effetti noto che le sue narici sono smisurate e arrossate. Gilda sorride e mi dice che è in viaggio.

E’ partita di nascosto per evitare l’ira di Piero. Dice che quella mattina Amanda le aveva detto che nel fine settimana avrebbe organizzato una festa con gli amici a tema uova e che a Gilda sarebbe stata chiesta la produzione più faticosa della sua vita: duecento uova di media dimensione. Gilda mi dice che quella notizia l’aveva spaventata e costretta alla fuga. Non so intanto se potrei soddisfare tale richiesta e se riuscissi nell’impresa, comunque, ho timore delle conseguenze. Non ho più il telefono con me perché immagino mi stiano già cercando. Ormai sono partita e non so cosa fare. Se decidessi di tornare indietro, so che mi aspetta una punizione tremenda e successivamente non potrei più sottrarmi al mio destino. Se insisterò nella scelta della fuga dovrò immediatamente provvedere al mio sostentamento vendendo le uova o esibendomi. Quest’ultima opzione alla lunga li porterebbe sulle mie tracce. Tu chi sei? Mi rendo conto che il treno viaggia ad alta velocità e che la notte è alle porte. Gilda mi sta dicendo che per colazione avrò certamente altre uova se le desidero. Le dico che possiamo viaggiare insieme, sono anche io senza meta e in fuga. Le propongo di proteggerla come una gallina dalle uova d’oro mentre decidiamo che fare. Gilda sospira e mi dice che non è mai stata con un uomo attratto dagli uomini. Mi sussurra maliziosa che le è sempre tornato più utile avere intorno maschi sessualmente attratti da lei. Mi alzo e sollevo le mie sopracciglia folte e scure. Mi trovo bloccato e annoiato. Improvvisamente mi sembra normalissimo conoscere Gilda e mangiarne le uova. La osservo come ci si osserva tra parenti stretti, persone che ogni giorno vivono insieme e diventano invisibili. Gilda mi abbraccia e mi chiede come mi chiamo. Io sono Oscar, le rispondo.

Ho solo voglia di lasciarmi cose alle spalle, non ho più la voglia di ridere né tanto meno di sorridere, solo di spostarmi e contaminarmi per disgregare me stesso. Soltanto in questo modo potrò riavermi e portare a me stesso tutto quello che frigge dentro e intorno a me. Gilda dice che dovremmo sistemarci in una spiaggia, rinunciare al business delle uova e passare le giornate a leggere e scambiarci calore reciproco, senza impegno sentimentale e sessuale. Le dico che il nostro incontro si è già esaurito e che non posso fermarmi, sono lanciato in avanti, senza infamia e senza lode. Gilda, ti lascio comunque il mio numero di telefono e se tra una settimana sei ancora in viaggio, chiamami e decideremo insieme cosa fare. Gilda mi dice che ha spento telefono. Si, altrimenti ti trovano, ho capito. Fatti un’altra sim, se ti servono soldi posso dartene solo cento.

E’ impraticabile costruire ancora un pensiero e una narrazione, arrivata a questo punto. Eppure continuo a farlo, meccanicamente. La mia entità repellente trabocca nonostante il mondo, nonostante gli assalti dell’altro di turno. E la mia prepotenza la mia voglia di supremazia da cameretta possono solo cambiare travestimento e frequentazioni neuronali, ma di fatto non dormono mai, nemmeno quando io dormo. I processi di inibizione forzata che arrivano dall’esterno naturalmente attecchiscono in un terreno ostico, ma puntualmente accogliente. E i frutti sono contaminati, ma arrivano da quel terreno che ha inghiottito l’esterno, non arrivano da altri altrove terreni. Perciò eccomi sempre qui a schiumare e ribollire. Non faccio che essere umana in questo processo inutile ma infermabile. Eppure tutto questo non fa che essere sovrumano. Altrimenti sarei in un altrimenti lecito e docile, la mente dolce, umile e taciturna.

Questo mio essere visibilmente maniacale è cosciente perché giunge nuovo dall’esterno. A me non importa però più di lasciarmi alterare e descrivere da ogni persona che si sente disturbata dalla mia presenza e dal mio parlare e parlare e parlare. Non me ne importa una sega. Dovete affogarvi nei miei deliri insulsi e sempre più puerili. Fatevi una vita e fatela bene, state procedendo bene, vi osservo e vi approvo. E guardatevi e vestitevi e partite. Io quando sto seduta su una sedia o su un divano alla fine sto sempre “in pizzo” e se mi parli io devo concentrarmi per guardarti negli occhi altrimenti sto in un altro posto ferma sul posto e mi muovo e giro e fuggo, poi torno se si tratta di te. Perché se io credo a te, tu esisti. E viceversa? Se entri in questa fottuta mia cameretta, mi trovi lì mentre scruto il mondo e me lo metto addosso e poi lo brucio e rimango nuda senza sapere chi diamine sono. Io sono quando tu credi a me. E’ questo forse che è sempre andato a fallire. Io l’asino che vola lo vedo sempre, da sempre. E’ l’asino che vola che non mi vede mai e io quindi come potrei passeggiare serenamente e con disinvoltura nel mio poi dopo la mia preistoria? Intendo, disarmando per un poco il mio desiderio di essere impenetrabile, da quando la mia infanzia sarebbe conclusa, il mio destino da adulta è destinato a un’inclinazione antisociale perché quel che con sconforto e disperazione riscontro è che io sono rimasta in un’infanzia incompiuta e inesauribile che mi pone continui cortocircuiti con tutti gli altri passanti. Vorrei essere Tappo Tombo, ma non lo posso. So sempre chi è il padrone e non è mai nello specchio.

Comunque, per darci un taglio e continuare ulteriormente ad escludervi ammorbandovi, nel commiato dell’episodio con l’uovo, l’uovo dice alla bambina: se ci sarà una prossima volta, non potrò riconoscerti, sei esattamente come tutte le altre persone. E questo è quello che mi accade. L’uovo non ha una forma come quella delle altre persone, la bambina si. Ecco, io so che tu sei il padrone perché la tua forma è diversa da chiunque altro, ma tu sei il padrone solo perché io esisto. (disegni di Leda Gheriglio)