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Livori quotidiani, quelli classici. Solo che dalla routine quotidiana noi ne parliamo in termini social-musicali. Si, tutti fenomeni di costume più o meno italici ma soprattutto tratti dai usi e costumi dei social che provocano allergie, fastidi, singulti, movimenti peristaltici, etc. Ma si parla anche di tutte quelle musiche che fatichiamo ad accettare o non abbiamo più l’età per ritenere speciali: una scena che scena non è mai stata da qualche parte remota o nella città in cui si fatica a vivere. Figurati quella indipendente, che è tipo il mainstream ma con meno zeri nei cachet!
Riflessioni poco ponderate (si, il controsenso certo, ovvio), scritte a raffica durante insonnie da weekend, farmaci per il reflusso/gastrite inerenti il mondo della musica italico, i (mal)costumi dei social che sembrano l’avanspettacolo da tv locale di tanti anni fa.
Mi correggo: il cabaret è meglio di questa farsa imprenditoriale moderna, che va bene eh, ma vi state portando i coglioni con le pari opportunità che vogliono i poppettari (o polpettari secondo la terminologia catanese)dal basso che vogliono essere manipolati, ma compiacendosi.
Vabbè, ne leggete uno al mese dei LIVORI QUOTIDIANI.
Se non gradite questa rubrica all’interno di questa - suppongo - rispettabile webzine, lamentatevi con il caporedattore.
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, istituzioni, luoghi ed episodi sono frutto dell’immaginazione dell’autore e non sono da considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari, organizzazioni o persone, viventi o defunte, veri o immaginari, è del tutto casuale.

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Ottavo Livore. Le 4 Emme

di:

Marketing, Maneskin, Matriarcato e Metaverso.

Pensiero ricorrente: ommadonna che palle i social!
Soundtrack con playlist domenicale e rilassante, non posso scrivere sempre ascoltando i Cannibal Corpse, datemi una tregua.

Archiviato il maximo livello di astrazione del precedente articolo basato su inps e visioni e previsioni, parliamo un po’ di quelle che succede, ovvero di quello che succede su Facebook, dello storytelling dell’odio, di fenomeni cringe degli utenti oramai invecchiati del social network che meriterebbe la crisi più grande della storie delle aziende informatiche degli ultimi 50 anni ma che forse potrebbe riservarci una sorpresa. Forse, forse il metaverso potrebbe avere un senso grazie al sogno rivelatore di questa notte. Forse questa volta non scrivo in maniera astratta ma mi abbandono a una riflessione, sì ma con un lessico ovviamente molto poco formale. Basta con la retorica e gli slogan che dei post polarizzanti per i motivi più inutili, ripeto, non se ne può più.

Nel sogno di stanotte vivevo in un piccolo camper, eravamo due coppie e dormivamo su dei lettini ricavati nel sottotetto, eravamo felici in un mondo microscopico composto da un camper parcheggiato in un cortile. La sensazione di benessere causata dalla attenzione alle poche urgenze della vita era veramente pervadente e mi infondeva una sensazione di ottimismo onirico, ma ovviamente il mio subconscio doveva fregarmi, altrimenti dove sarebbe stato il bello e la possibilità di trovare finalmente l’ispirazione per il nuovo – probabilmente inutile – articolo.

Ad una certa il sogno virava bruscamente nella sceneggiatura, la porta del camper micromondo si apriva e ci ritrovavamo in questo enorme cortile condominiale strapieno di tavolini e di gente seduta intenta a discutere, chiacchierare, sbevazzare, fare il dannato o benedetto aperitivo alla luce del sole.

NB: nei miei sogni da circa 41 anni a questa parte non c’è quasi mai il sole, ma un cielo nuvoloso alla matrix o un eterno crepuscolo affiancato dai dipinti di Giorgio Morandi appesi un po’ ovunque. Probabilmente vorrei essere un vampiro.

Il dannato aperitivo, dicevamo, il modo ossessivo e compulsivo che hanno le persone per vivere: socializzare, aderendo rigidamente a un costume che si ripete da secoli dall’Illuminismo in poi e che per qualche secolo ha avuto una funziona sociale e culturale:

La necessità di diffondere il più possibile le nuove conquiste e il nuovo sapere nel campo scientifico, filosofico e politico, fece aumentare nelle grandi città e nei piccoli paesi di provincia i dibattiti, gli esperimenti in pubblico, le manifestazioni all’aperto e gli incontri tra aristocratici, uomini di cultura nei Caffè cittadini e nei raffinati salotti nobiliari.

Dunque, la cultura usciva dalle accademie e dalle corti e andava incontro alla gente, disponibile al popolo attraverso libri e nuove pubblicazioni.

Poi è arrivato il secolo breve, abbiamo inventato internet che in una prima fase veniva immaginato come un modo per ampliare il pubblico di chi aveva portato conoscenza, come ad allargare lo spazio di un anfiteatro virtuale dove il docente parlava e tutti ascoltavano. In realtà quel pubblico poi ha invaso il palco, ha menato il docente e si è esibito in una gara di rutti al microfono, spacciandoli per libertà di pensiero (cit. da un post di Michele Bruson) e siamo arrivati al mondo di oggi e verso le conclusioni di questo enorme pistolotto socio antropologico che riassumo in varie frasi, ovviamente provocatorie e da alfiere del troublemaking che mi sono apparse in sogno durante l’aperitivo a cui assistevo in crisi del sogno sopra citato.

Della prima emme:

“Ma chi cazzo se ne fotte dei Maneskin”

“Ma chi cazzo se ne fotte dell’opinione che hanno gli altri sui Maneskin, ma soprattutto di quella del coglione che ancora non hai oscurato su facebook”

“Ma chi cazzo se ne fotte se i Maneskin vincono dei premi e chi cazzo se ne fotte in generale dei premi culturali”

“Ma chi cazzo se ne fotte dei premi in generale al di fuori delle attività agonistiche e sportive, ma ehy chi cazzo se ne fotte del calcio eh”


“Ma a parte le facce buffe che fanno in foto, chi se ne frega se ti fanno cagare non li ascoltare e al massimo sfottili su facebook gli sfigati che non riescono a non insultarli, soprattutto quei musicisti attempati e sfigati che si dannano ogni qual volta esce una band di merda; fanno cagare, d’accordo, proponiamo qualcos’altro invece di accanirci con le logiche social cringe di FB in post inutili.”

Credo di aver reso l’idea, inoltre se andate a cercare le mie sparate social sui Maneskin si condensano nell’ultima frase.

Poi se vogliamo parlare del male assoluto, beh il male assoluto è accaduto quando il guru (per i musicisti scarsi) dal capello fluente è approdato in tivù e ha ridato linfa “indie” (non usavo questa parola da diversi mesi) ai contest musicali televisivi.
Show-biz: estensione del capitalismo, non cercate giustizia, si tratta di televendita di prodotti, e per il sottoscritto non c’è differenza tra guardare una televendita di Wanna Marchi e quella cagata di reality di cui avrete intuito il titolo di cui non farò il nome perchè mi viene l’orchite solo a pensarci. Il male è chiaro, archiviamo e andiamo avanti.

Ma proseguiamo, perché questo pistolotto ha un finale speranzoso. Sono sincero: c’è luce alla fine del tunnel.

Illustrato finora certo marketing culturale pseudo-storicamente in maniera più o meno consapevole (malafede) ascoltando la colonna sonora prima elencata che sto facendo ascoltare anche ai Pantomima Band perchè a Marzo presumibilmente pubblicheranno un disco di impro jazz lounge easy listening (eh?), cercando di pensare che una produzione culturale a volte non sia solo un prodotto da vendere sul banco del supermercato, ovvero il concetto per cui mi sono buttato a capofitto nel mondo della musica indipendente.
Balle anche queste, ma la soglia di innesco della ipocrisia è leggermente più alta nei mercati meno competitivi.
Il segreto è nel dosaggio. 

il problema è il mercato.

Quindi siamo fottuti? Non immediatamente.

La speranza è il cambio di passo di Facebook: cioè sempre maledetto sarà, ma a me incuriosisce realmente il metaverso, perché se mi permettono di fare una jam musicale, magari con un amico musicista che sta a 2000 km di distanza senza i problemi che anche le tecnologie moderne di streaming simultaneo fatte ad hoc ancora evidenziano, mi sembrerà di entrare in quell’immaginario cyberpunk più vicino alla sociologia futuribile musicale di  “A Tutto Rock” di Pat Cadigan e ad “Aidoru” di William Gibson o comunque creano qualcosa che permetta agli over 50 di rimanere sul loro social classico; potremo magari avere una dimensione nuova, speranzosamente scevra nei primi anni di vita, e quindi magari usufruire meglio delle età pionieristica così come sono gli avvii delle nuove dimensioni dell’internet.
No? Mi illudo, vero?!

Può essere, ma mai come oggi mi viene da pensare che Zucky&co hanno bisogno di una bella lavata di immagine, quindi magari ne approfittano. Spesso capita.
È probabile.

Ok me lo auspico perché sono stanco di leggere i post dei mie coetanei (40 enni con la mania del like e della voglia di esistere in comunità) che devono scrivere ‘sti post stucchevoli su come Zerocalcare parla della loro epoca, di loro, dei loro drammi e dei loro disagi.
Questa retorica basata sul piagnonismo mi fa soffrire perché se mi fermo a riflettere sui problemi che mi attorniano non posso non evidenziare sempre due mancanze fondamentali, ovvero diritti del lavoro e di certe lacune dei diritti civili.

Ma di questo ne ho ampiamente scritto, non sono lamenti sterili come lacrime nella pioggia di certi post totalmente inutili.

Volevate essere pagati perché credevate di avere qualcosa da dire, ma vi sareste dovuti accontentare di non dover pagare sanzioni per tacere, semplicemente.


Bonus: Zerocalcare Netflix Edition

Premesso che a me faceva simpatia e che la sua striscia famosa sul morto famoso era la roba che più si avvicinava alla mia vita e al mio modo di vedere le cose, con delle bellissime robe mai fatte dobbiamo pur ammettere che le persone a cui piacciono le cose stucchevoli sono il target perfetto della sua incarnazione su Netflix.
No, non c’è nulla di bella nell’ennesima operetta morale consumistica di cui il nostro eroe è autore, mi sta bene tutto, intendiamoci, ma lo spiegone, i post di coloro che piangono perché ci si rivedono troppo e questa fottuta parola “generazionale” in mano a quattro generazioni diverse che dicono la stessa cosa, solo perché invecchiano malissimo e perché lo storytelling del capitalismo è lo struggimento totale verso quello che non c’è più (e che forse non c’era) e questo ravvedimento psico interiore… mi sono perso? Ahò, che stavo a dì?

‘A Michele, spero te abbiano dato ‘na barca de sordi perché proprio nun ce semo, basta co sto struggimento esistenzialista piagnone, la vita fa cagare ‘o sapemo, dovemo morì e anche grazie ar cazzo, ma basta pure te a fomentà ‘sta massa de frignoni sui social che mettono le birkenstock, se ‘mpriacano e credono che fà figli sia ‘a risposta definitiva ai loro rimpianti visto che spesso so’ oriundi che rimpiangono er sud e che postano ogni due tre er pacco che je mandano li zii de Licata.
Basta Michè, non se ne pò più dell’estetica der rimpianto, rispiarmace, già famo ‘na vita de merda sottopagati, ce manchi pure te ca’ storia der crick, de te che non sai cambiare a ruota e de a mamma tua che te sarva, e de tutte le altre fregnacce di cui parli in ‘ste cazzo de sei puntate.
Tutti bravi, è show-biz perfetto. Me state ‘a vende er pacco spaghetti Barilla der supermercato de’ lusso.
Il problema è che te piace ‘a gente che a me non me piace, ovvero quelli cche birkenstock de prima, tutti fricchettoni che a volte pur de rebellarsi diventano no vax, tanto pe’ darsi n’tono e dì in ufficio “oh, hai visto l’ultimo de zerocarcare? Oh, tosto eh, proprio a nostra vita” mentre fanno rate per comprarse er posto ar cimitero.

Dai Michè, va a cagà che si sta n’attimo a diventà i personaggi de’ n’videoclip de Tommaso Paradiso.

Daje.




Basta, ci sentiamo con l’anno nuovo, buone feste a tutti, me raccomanno parlate o provate a parla’ en romanesco e mangiate er panettone no er pandoro!

Immagine di copertina di Mirko Iannicelli.