di: Enrica Orlando
Leggere le notizie ormai è surfare per non essere investiti dalla merda.
C’è quello che commenta i peli di Rackete e le gambe tornite di Salis; quella che invita quegli altri ad alzarsi, per fare finta (perché è quella fase della “politica” in cui stanno smettendo anche di fare finta) di rispettare Satnam Singh, un uomo morto di schiavismo e indifferenza; c’è quell’altro che si inventa il reddito di maternità. Il tutto mentre siamo impegnati a polemizzare su come le nuove generazioni scelgano di festeggiare la maturità, invece di contribuire a far sì che abbiano un valido motivo per festeggiare.
Tra un’onda di merda sconfortante e l’altra, mi imbatto nella polemica su Banksy per la sua performance a Glastonbury e non posso fare a meno di fermarmi.
In questo caso prima per la bellezza del suo lavoro, poi per la merda che ne è seguita.
Anche nelle sue opere meno efficaci, la mia sensazione è che Banksy faccia il tiro al bersaglio: il messaggio che vuole mandare è la freccia, Banksy è la mano invisibile che la scaglia.
Il bersaglio è la realtà che sentiamo di vivere.
Non la realtà, ma quel misto di questioni sociali, collettive, private, tangibili e oniriche su cui arrocchiamo la nostra quotidianità, per renderla qualcosa di sopportabile a livelli più o meno ascendenti.
Al di là del gusto personale, Banksy è uno che punta alla realtà che viviamo e ha innegabilmente una mira pazzesca. Se non becca sempre il centro, ci va sempre vicinissimo o vicino.
È lì la parte complicata. Vai a trovarla, una freccia capace di infilarsi in un casino simile, penetrandolo come un coltello in un panetto di burro lasciato fuori dal frigo, in una mattina di luglio solitaria. Di quelle che ti permettono, con tutti i pro e i contro, di avere percezione di ogni movimento che fai, anche prepararti la solita colazione.
Banksy lo sa fare. Cioè, è quello che sa fare l’arte, ma il modo di Banksy è veloce, pulito e preciso per il modo in cui giunge a destinazione. Ed è per questo che la sua arte, per me, è politica. Perché non si avvale di proclami e messaggi ben confezionati. Ma di proclami e messaggi ben confezionati, che cercano di smuovere qualcosa a livello umano.
E questo è un atto politico.
Il fatto che lo faccia attraverso la bellezza, le forme o i gesti è un atto artistico.
Il fatto che ogni opera somigli a un tiro al bersaglio pulito, preciso e inequivocabile, che difficilmente può essere frainteso e non avvertito, rende la sua arte anche popolare.
Quindi soggetta a interpretazioni idiote.
E la capacità di restare artisti e allo stesso tempo popolari è in assoluto una dimostrazione di lucidità.
E qui veniamo alla performance a Glastonbury.
Durante l’esibizione degli Idles, Banksy ha fatto “surfare” sulla folla un canotto con dei manichini, che rappresentavano in modo pulito, preciso e inequivocabile, appunto, i migranti che rischiano la vita per scappare dall’orrore in cui vivono.
L’effetto-freccia sta nella messa in scena della loro quotidianità, innestata sopra, letteralmente sopra, quella di chi non fugge per sopravvivere.
La loro quotidianità è arroccata sulla necessità di galleggiare sulla gente.
Sono letteralmente sulle teste di un’ Europa e di una parte di mondo che è responsabile e dovrebbe sentirne il peso.
La vita di chi troppo spesso viene trattato come manichino anonimo, dipende da chi c’è sotto.
Ma è anche il contrario.
Il crowd surfing è un atto di fiducia: speri di essere sorretto, perché se non trovi chi ti tende le braccia, finisci a terra e ti fai male.
Ti fai male tu per primo, ma è piuttosto certo che farai male anche a chi è sotto.
E infatti il fenomeno dei migranti ha un impatto economico e sociale globale.
A un altro livello, forse meno analitico e più emotivo, l’immagine di manichini che cercano stabilità su un mare di temporaneo entusiasmo, che è meglio non chiedersi quanto consapevole del declino che c’è intorno, fa rabbrividire.
Ad ogni modo, scegliere di far “surfare” il canotto, non in un momento a caso dell’esibizione degli Idles, ma durante la canzone “Danny Nedelko”, chiarisce ulteriormente il punto della performance di Banksy:
“My blood brother is an immigrant, a beautiful immigrant (…)He’s made of you he’s made of me”
È inequivocabile.
Lo è, a meno che non si sia sprovvisti di ogni tipo di sensibilità, anche quella di base che dovrebbe permetterti, ad esempio, di capire che se sei una figura istituzionale e stai parlando di un uomo morto dissanguato sul lavoro, ti devi alzi e ti devi scusare a nome di tutti; quella sensibilità che dovrebbe farti intuire che essere donna non ha a che fare esclusivamente con un utero e una crema depilatoria.
Nel caso specifico di Banksy, il segretario di Stato per gli affari interni Cleverly, del Partito Conservatore, ha sostenuto che il pubblico del concerto “rideva e festeggiava per azioni criminali che costano delle vite (…). Non è divertente. È vile”
Qui o si tratta di cecità totale o è consapevolezza del fatto che c’è gente, troppa, che sarà d’accordo con te e allora sfrutti in modo squallido l’occasione.
Basti pensare solo ai commenti al post di risposta di Banksy: c’è gente che gli ha consigliato di non occuparsi di politica.
Persone che io riesco proprio a vedere al cesso, in metro, durante la pausa caffè, mentre digitano sui loro smartphone per suggerire a un artista di fama mondiale – che oltretutto finanzia una nave di soccorso – cosa dovrebbe fare della sua arte.
Che mi pare un modo eccezionale per dimostrare di non avere chiaro il senso di politica, di arte, di musica e anche del valore delle opinioni.
Un bel mix di merda, nel quale non ci resta che surfare sperando di sentire ogni tanto lo spostamento d’aria generato da una freccia.
Che nel caso di Banksy è anche garanzia costante di grande eleganza, spia di ogni anima artistica.
La sua risposta ne è una prova.