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Boris 4: non lo famo ma lo dimo? Duccio è la risposta

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Come quando: ci siamo, è dicembre.

Tempo di non fare bilanci.

Tempo di non fare regali inutili, a gente di cui non ci importa nulla.

Tempo di non passare il tempo, dove non vorremmo passarlo.

Tempo di non immalinconirsi inutilmente, ché la nostalgia ha rotto le palle.

Tempo di non lo famo ma lo dimo.

Perché dai, alla fine si sa: il Natale è il trionfo dell’apparenza.

E dai dai, alla fine dell’anno si sa: se ci mettiamo a fare bilanci, è facile mentire a noi stessi, prima ancora che agli altri.

Ma dai dai dai: almeno, dopo 12 anni è tornato Boris (serie tv scritta e ideata da Mattia Torre, Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo).

E allora dai dai dai: diciamo la verità, con non lo famo ma lo dimo, ha pescato -di nuovo- la frase definitiva, quella che sintetizza e caricaturizza il mondo del cinema italiano, per descrivere allo stesso tempo il nostro paese.

Viva la merda abbasso la qualità: nulla è cambiato

Era già accaduto nelle prime stagioni, che erano riuscite a raccontare i set per parlare di Italia e viceversa, in un continuo e grottesco interscambio di dolce e amaro, esilarante e malinconico: dinamiche surreali, produzioni arraffone alla ricerca di finanziamenti, stagisti sottopagati e maltrattati; attrici ingaggiate anche se sono “cagne maledette”, attori pieni di sé che sognano un’atmosfera “meno italiana e più inglese”; sceneggiatori che guadagnano cifre esorbitanti, per scrivere sempre le stesse cose, al punto da aver associato il termine “basito” al tasto f4, per velocizzare la scrittura.
Compromessi, ipocrisia, pochi finanziamenti, poca meritocrazia e tanta vanità: insomma, un generale e ingombrante viva la merda, abbasso la qualità!, con una spolverata abbondante di a cazzo di cane, che chiaramente strizza l’occhio a un paradigma sociale, forse addirittura a un periodo storico.
Di sicuro a un modo di vivere, “molto, troppo italiano”.
Perché Viva la merda abbasso la qualità! è il sogno che fa un frontale con la realtà, ma ti racconta di essersi solo fatto un giro sull’autoscontro, in quel grande Luna Park itinerante che è l’illusione di non dover scendere a compromessi, in un paese in cui se non sei qualcuno, non sei nessuno. 
E visto che in 12 anni niente è cambiato, anche Boris è rimasto fedele a se stesso e non propone grandi novità.

La non rivoluzione del “non lo famo ma lo dimo”

L’unica differenza con le precedenti stagioni è che Viva la merda, abbasso la qualità!, si è messo in tiro, ha fatto il famoso upgrade ed è diventato Non lo famo ma lo dimo.
Ovvero: questa scena costa troppo alla produzione, non la giriamo -non la famo- ma possiamo far spiegare l’azione agli attori –la dimo- inserendone la narrazione, magari in un dialogo.
Nella nuova stagione, quindi, le situazioni sono le solite ma si adattano alle rivoluzioni che hanno investito il settore dell’intrattenimento e del cinema negli ultimi anni. E dunque piattaforme streaming, serie tv e il nuovo modo di fruire e raccontare le storie, che ha cambiato tutto e sostanzialmente non ha cambiato nulla.
Esempio perfetto di questo cambiamento/non cambiamento, Seppia (Alessandro Tiberi) che da giovane stagista squattrinato, goffo e bullizzato, è diventato ricco rappresentante della piattaforma americana che finanzia la serie tv. Ma è sempre goffo e bullizzato.
Sul set, al suo posto, c’è una nuova stagista (Aurora Calabresi) meno goffa, meno bullizzata ma molestata dalle comparse e fatta fuori al primo errore.
Per il resto, i personaggi non sono cambiati: il regista René Ferretti (Francesco Pannofino) è sempre in bilico tra l’illusione di poter fare grandi cose e il cinismo della produzione e soprattutto dell’Algoritmo, nuovo nemico acerrimo della creatività; Lorenzo (Carlo De Ruggieri) ex stagista schiavo, ora è collaboratore del direttore della fotografia ed è ancora emarginato e umiliato, ma riesce sempre a trovarsi in situazioni di insospettabile piacere o potere; Biascica (Paolo Calabresi) è sempre amabilmente diviso tra il prosaico e il sentimentale; Arianna (Caterina Guzzanti) è sempre l’aiuto regista imperturbabile, professionale e un po’ frustrata; Corinna (Carolina Crescentini) e Stanis (Pietro Sermonti) sono sempre attori -cani- ma adesso sono anche sposati e produttori -sempre cani; gli sceneggiatori (Aprea, Santoretti, De Lorenzo) sono sempre molto pagati e poco impegnati, ma non sono sono più tre, bensì due: uno (Valerio Aprea) è diventato una sorta di presenza invisibile, un consigliere fantasma in omaggio a Mattia Torre, prematuramente scomparso nel 2019. 
E sono proprio gli sceneggiatori a proporre il famigerato non lo famo ma lo dimo, le cosiddette “scene telefonate”: quelle azioni che non vengono girate, ma raccontate attraverso dialoghi o altri stratagemmi “verbali”, che permettono di risparmiare sui costi delle riprese.

Non lo famo ma lo dimo nella realtà

Non lo famo ma lo dimo nella realtà sarebbe l’amico che ti dice:
-“Ieri ho preparato la cena più buona del mondo, pensa che Cannavacciuolo è venuto a chiedere di portare via gli avanzi”, ma tu a quella cena non c’eri.
-“Ieri ho avuto un travolgente incontro amoroso con Brad Pitt, sono stata così performante che da allora ha iniziato a dire Peffetto, come fa nello spot del caffè” ma, beh no, tu non c’eri, tu stavi a casa con Netflix e camomilla: ti devi fidare. Magari è vero.
Nella realtà, non lo famo ma lo dimo è il viaggio su cargo battente bandiera liberiana, del Mauel Fantoni cazzaro di verdoniana memoria. Erano gli anni 80: nulla di nuovo, dunque.
E il paradosso è che la novità magari è proprio questa.

Ma ti devi fidare delle storie, che è quello che fai quando guardi un film, leggi un libro, ascolti una canzone, osservi un quadro, assisti a uno spettacolo teatrale, segui una serie tv -soprattutto nel caso delle serie tv, quelle frazionate in un milione di stagioni.
Significa saper ascoltare e saper raccontare, abilmente o meno sta al bilanciamento tra qualità e merda, del motto di cui sopra.
Ma chiaramente nella realtà, non lo famo ma lo dimo significa anche mentire, per la solita, incrollabile ragione: la realtà è più finta della fiction. 

Ad esempio:
-non ho fatto niente per meritare questo posto di lavoro, ma ti dico che “me lo sono sudato ed è stata la conquista più importante della mia vita”.

-non mi interessa minimamente la questione della violenza di genere, le disuguaglianze e la povertà in crescita ma ti dico che “non solo ho a cuore il tema: ho anche un piano per risolvere tutto”.

-non ho realizzato un piano per risolvere tutto ma ti dico che “ho capito che la colpa è dei migranti, dell’Europa, del Covid, delle donne che non fanno figli” e di tutto quello che getta fumo negli occhi, da farti sballare quel tanto che basta, da farti credere che alla fine il tuo culo resterà parato per sempre.

Raccontare e raccontarsi storie, per tergiversare, mentire, abbindolare.

Aneddoti: quelli che fanno impazzire Mariano (Corrado Guzzanti) che in questa quarta stagione è diventato un fanatico della armi, al punto da puntare la pistola alla tempia di chi perde tempo per raccontare storielle invece di lavorare:

“Sai quanto costano gli aneddoti a questo paese? Due punti di Pil”, avverte minaccioso.

Che è una battuta, chiaramente lo è, ma neanche tanto. Perché gli aneddoti, certi aneddoti, certe storielle raccontate da politici e rappresentanti vari, che dicono tanto per dire, non per fare, ci costano illusioni, speranze, diritto, lavoro e in pratica tutta quella qualità che, più andiamo avanti, più rischia di non farcela a sopravvivere alla valanga di merda.

Ma forse a questo Boris ha trovato una risposta: Duccio (Ninni Bruschetta) e la sua cecità temporanea.

Duccio, il disincantato direttore della fotografia che “apre tutto” e “smarmella”, che non ha smesso di pensare -che è il verbo in codice per avvertire che va a tirare cocaina- ma ha smesso di vedere.

E nel momento in cui ha smesso di vedere, ca va sans dire, fa una fotografia bellissima.

Perché probabilmente vede con gli Occhi del cuore (la fiction che la troupe del regista Ferretti girava nella prime stagioni); perché probabilmente è l’unico modo per filtrare la realtà e gli aneddoti inutili, per crearne altri, più vicini a un umano sentire. Di sicuro, perché gli è stato necessario affidarsi anche all’aiuto di altri.

Tre risposte che potrebbero essere tranquillamente tre comandamenti, o almeno tre mantra da recitare per il nuovo anno.

Perché il resto non sembra cambiare di molto.

Anche Boris non è cambiato.

E d’altronde perché avrebbe dovuto, se noi siamo ancora gli stessi.