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Per la giornata della donna, parlate voi

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Quest’anno, per la giornata della donna, ho deciso di salire sul palco di un teatro famoso e pieno di gente, per fare la valletta.
O forse dovrei dire co-conduttrice, che fa tanto gender equality, ma la verità è che alla fine affianchi sempre un uomo per mostrare un vestito, un sorriso, per ringraziarlo, per dire quello che ti ha/hanno concesso di dire.
Quindi, valletta va bene.
Forse valletta versione pro, visto che adesso ci fanno parlare, per un tempo limitato. Ma suona male.
Quindi diciamo valletta e basta.
Sì, voglio fare la vallettaebbasta: una donna figa, famosa e ricca, che non deve parlare delle donne, alle donne, in quanto donna. Una vallettaebbasta, senza neanche sprecarmi a fare chissà che gesto di ribellione per distinguermi.

Ho già in mente l’outfit per la serata:
-leggings nero sbiadito HM
-calzino bianco di spugna Decathlon, collezione sport invernali – dice: “fai sport invernali?”; “no, ma erano i più caldi che ho trovato”;
-canotta Bershka dello stesso punto di nero sbiadito del leggings, con piccolo foro centrale, collezione 2010
-occhiale da vista con montatura nera, stile Arisa prima maniera
-capello “ohmiodio”
-make up effetto nude, nel senso che non mi trucco
-smalto sbeccato in egual modo su ogni dito
Lo so, letto così, questo elenco potrebbe far credere che io covi in me la convinzione di andare a fare la ribelle. Ma no, la mia è solo una scelta di comodo. Non sono così ingenua, da pensare che possano bastare un leggings e qualche punto nero a far scalpore. E come potrebbero? Abbiamo già sdoganato tutto.

-La moda delle occhiaie. Nel senso che, se non le hai, puoi usare un ombretto violaceo, per riprodurre il segno di una bella notte insonne, perché fa sexy. Che io ci voglio credere, ma dopo due decenni di insonnia, adesso dovrei avere il sex appeal di *inserisci una qualunque icona sexy*. Eppure, beh, no.
A meno che non me ne sia accorta, a causa appunto del rincoglionimento da insonnia.
Lo so, è un cane che si morde la coda.
-Abbiamo sdoganato i brufoletti.
-Abbiamo sdoganato le mestruazioni senza assorbente: cioè andare in giro senza assorbente mentre perdi sangue.
-Abbiamo sdoganato i peli sulle gambe.
-I crop top con i rotolini di ciccia.
-Le sopracciglia più folte dei capelli; poi le sopracciglia disegnate come quelle che avevano le Barbie.
-L’altro giorno mi è capitato il video di una che spiegava come lavarsi i capelli a metà: metà sì e metà no.
Boh, non ho capito.

Aspetto con ansia il giorno in cui sarà di moda andare in giro con le foglie di insalata tra i denti. Sono sicura sarebbe facilissimo trovare una spiegazione sociale protofemminista, tipo: “I denti sono i miei e ci infilo quello che voglio”, “Voglio poter ridere liberamente dopo cena”.
Già immagino le pubblicità, sui tipi di insalata da abbinare a quella forma di dente:
“Compra il radicchio che esalta il tuo canino”; “La rucola sfina i molari”.
La lattuga tra gli incisivi sarà il nuovo must have come il tubino nero, il grande classico da avere sempre nell’armadio, l’ever green, appunto.
E non lo dico per giudicare. Anche se volessi, non potrei.
1. Perché la mia adolescenza è stata segnata dalle meches. Le ciocche biondo/giallo che cadevano perfettamente simmetriche ai due lati del viso e spiccavano vistose e impudenti sui capelli castani, effetto “mi hanno rotto un uovo in testa e ne vado fiera”.
2. Perché oltre le meches, sono stata segnata anche dai frisé (quelle ondine che si ottenevano con una piastra tanto simile a quella per grigliare la carne).
3. Perché l’idea che ognuno si senta libero di fare quello che vuole, a me piace.

Certo, il confine tra “faccio quello che voglio” e “penso di fare quello che voglio, ma in realtà è una moda pure questa” è pericolosamente sottile. Ma tanto, per quanto ci sentiamo rivoluzionari, quelli che davvero contravvengono a ogni regola si contano sulla punta delle dita di una mano. Quindi, tra tutti gli altri, se anche solo una ragazzina si sente davvero libera di indossare un pantalone corto, anche se non porta la 38, mi sembra soprattutto una buona notizia.

E allora, per tutte queste ragioni, salendo su un palco trasandata, non farei questa rivoluzione.
Tanto più che non sono né famosa, né ricca, né figa.
Ma tanto, se fossi figa e famosa, passerei per la ragazza della porta accanto, ingenuamente inconsapevole della sua bellezza stratosferica e così umile da mostrarsi per quello che è: una che indossa anche leggings sbiaditi.
Ovviamente, d’altro canto, qualcuno avrebbe da ridire, perché “eh, facile così, se sei figa non puoi essere in imbarazzo, perché se ti vesti male sei bella lo stesso”. Come se i problemi che le donne hanno con la percezione del loro corpo passassero solo da un abito.
Se fossi un’intellettuale figa, il mio essere trasandata passerebbe per un voler snobbare la bellezza e allora sarei “rosicona, radical chic lavati che puzzi”.
Se fossi una milionaria trasandata, passerei per quella che vuole dare un messaggio easy, cheap, tipo “non importa lo stato sociale, sei bella come mamma ti ha fatto”. E, immancabili, arriverebbero quelli che mi darebbero dell’ipocrita, perché “sì vabbé, ora ti mostri così, ma lo sappiamo che a casa indossi il pigiama placcato in oro e le mutande di Swaroski”.
Se fossi una trasandata che è stata invitata per far ridere: “E per far ridere c’è bisogno di conciarsi così?”
Se fossi invitata per un discorso serio: “Beh e ti vesti così? Un po’ di decoro!”
E allora non se ne esce. Soprattutto considerato che non sono né figa, né ricca, né famosa, né intellettuale.
Quindi credo all’unanimità la gente avrebbe da ridire, perché non sono solo trasandata, non sono nessuno.

E allora, (anche)per la giornata della donna, la cosa migliore da fare è evitare di pensare cosa direbbero gli altri di come sono vestita e fare come mi pare. Come sono più comoda.
Stabilito l’outfit, il contenuto del monologo andrà da sé: non voglio dire niente.
E non lo dico con il tono paraculo della Ferilli, che l’anno scorso a Sanremo fece tutto un elenco di cose di cui avrebbe potuto parlare, ma dato che c’è gente più brava di lei, meglio tacere. Magari aggiungendo il “simpatico” dettaglio di aver mangiato “solo radici, per tre giorni,”per entrare in quel vestito (perché alla fine sempre là torniamo).
Eh, no. Perché se voglio combattere lo stereotipo attuale della donna invitata per fare pink washing, per parlare per forza di donne e di drammi legati alle donne, allora parlo di altro.
Oppure sto in silenzio.
Ma davvero, però. Voglio proprio salire sul palco sfatta, brutta e in silenzio. Al massimo con un cartello “Visto che sapete tutto, parlate voi”. Perché mi pare che il problema principale non sia solo farsi ascoltare da chi non vuol capire. Il problema è imparare a ascoltarsi. E il silenzio aiuta sia chi non dice niente, sia chi parla senza avere risposta. Non avere un risposta alle cazzate che si dicono, crea un’eco, che può rimbombarti in testa per ore, giorni, anni.
Sperabilmente.

Illustrazione generata con software di intelligenza artificiale DALL-E.