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Lazarus, da Bowie a Malosti: spingersi dove non si tocca

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Spingersi dove non si tocca: è questo che viene in mente, assistendo al Lazarus di Valter Malosti, andato in scena ieri (22 marzo) al Teatro Bonci di Cesena.

Io c’ero e ho pianto di emozione.

È vero, ho pianto anche nel 2016 quando è morto Bowie (tre lacrime, tre giorni dopo, in silenzio).
Ho pianto al Mambo di Bologna, appena uscita dalla mostra David Bowie Is (singhiozzi).
Ho pianto quando ho visto il documentario The last five years (una valle di lacrime).
Ho pianto per quasi due ore, guardando il Lazarus di Bowie e Walsh, la versione londinese (singhiozzi, valle di lacrime, stordimento).
Ho pianto quando ho visto Moonage Daydream di Morgen (una lacrima, ma sorridendo).
Ho pianto un po’ di volte, sparse, qui e lì, su qualche suo pezzo, partito nel momento giusto.
E ho pianto alla prima del Lazarus italiano, ascoltando la versione di Absolute Beginners di Manuel Agnelli, .
Letta così sembra la cronaca di una piagnona, ma considerando l’arco temporale, parliamo di sette anni, la cronistoria delle mie lacrime racconta piuttosto quanto siano centellinate e quanto sia significativo che, anche dopo sette anni, si possa ancora piangere di emozione, per qualcosa che non è più, ma evidentemente continua a essere.

Dopo sette anni, Lazarus è arrivato in Italia

A distanza di sette anni, l’opera scritta da David Bowie e Enda Walsh è arrivata in Italia.
La storia è ispirata a The man who fell to Earth, romanzo di Walter Tevis da cui fu tratto l’omonimo film di Roeg, che vide proprio Bowie nei panni del protagonista, l’alieno Thomas Jerome Newton, giunto sulla Terra e qui rimasto intrappolato, vittima delle sue illusioni e della crudeltà dell’essere umano. 
È da questo limbo che parte Lazarus: alcolizzato e isolato nel suo appartamento, Newton è piegato dalle allucinazioni prodotte dalla sua mente, martoriata dal ricordo di amori perduti e proiezioni nefaste.
Come farà a tornare tra le stelle? A tornare indietro? La risposta è una sola: andando avanti. Deve lasciar andare il passato e affidarsi all’unica luce che può salvarlo: la speranza, rappresentata da una giovanissima ragazza.
Che sia vera o meno non importa: lei si sente reale e lui deve provare a crederci.

Scegliere di reinterpretare un’opera del genere è chiaramente una sfida che, per quanto ben studiata, rappresenta anche un salto nel buio, un tuffo nel punto più alto della piscina, quello dove non si tocca.
Le ragioni sono due.
La prima è che Lazarus non è solo l’ultimo lavoro di Bowie, ma è anche il suo testamento artistico.
La seconda ragione è che bisogna individuare una chiave di lettura, per aprire le porte della propria percezione dell’opera e Lazarus è intriso di una miriade di strati tematici: scegliere non è facile.
Inoltre, anche quando hai individuato una strada, devi essere pronto ad abbandonare la tua zona di comfort, per sperimentare.
Perché la sperimentazione è il nocciolo della poetica bowieana, è l’elemento costante, in un groviglio vulcanico di idee e suggestioni, di cui Lazarus è un esempio molto rappresentativo.
Mettersi alla prova è il miglior modo di raccontare l’opera di Bowie, perché è così che lui si è raccontato.
Seguire il proprio istinto creativo, dunque, lasciandosi trascinare e trascinando così lo spettatore: spingersi dove non si tocca.

Circolarità e oscurità: l’opera di Malosti è una centrifuga emozionale

L’opera di Malosti riesce perfettamente nell’intento, concentrandosi su due punti nodali: circolarità e oscurità.
Il delirio mentale è reso da una piattaforma rotante che dinamizza la staticità dei corpi di Newton/Manuel Agnelli e Ragazza/Casadilego, “paralizzati” nello stato di creature sospese nel loro tempo e nel loro spazio.
Il risultato è una centrifuga visiva e emozionale, che racconta uno stato di alterazione mentale, comunemente chiamato pazzia, ma più propriamente definibile come un limbo, in cui realtà e sogni si fondono, annientando il senso del tempo e lasciando in superficie solo le emozioni. 
E la parte emozionale è anche quella più concreta e trova il suo canale preferenziale nei brani di Bowie.
I pezzi interpretati da Agnelli virano tutti su toni cupi e viscerali.
Non c’è spazio per nessuna forma di leggerezza o illusione, che “balenano” invece nella versione originale del musical. In questo senso, risulta quanto mai opportuna la precisazione dello stesso Agnelli circa l’opera, che “non è un musical ma un’opera rock”. E del rock, infatti, ha tutta la rabbia, l’energia e il dolore.

La potente delicatezza della voce di Casadilego, racconta lo stesso dolore ruggente, ma lo nutre di colori onirici.
D’altro canto, la sua presenza scenica restituisce una qualità “terrena” alla figura eterea e quasi impalpabile della Girl originale. Il risultato è un equilibrio tra l’impaccio di una ragazzina e la potenza dirompente dei suoi sogni: niente di più vicino alla descrizione di una girl with the mousy hair, che può regalare speranza al più disperato dei cuori.

Ci si muove nel buio, in tondo.
L’appartamento/bolla di Newton è un coacervo di frammenti, esattamente come la sua interiorità.
Centrali sono gli schermi, che proiettano e rivelano scene antecedenti o contemporanee al presente, che si fonde così in una soluzione unica con passato e futuro, reale e proiettato, vissuto e “visto su uno schermo”.
C’è un teschio, elemento spesso utilizzato da Bowie nelle sue performance, inclusa quella finale nel video di Blackstar.
C’è l’armadio, che diventa porta da cui Newton esce e entra di scena: una via di fuga illusoria, che somiglia più a un superamento della linea di demarcazione tra ciò che è visibile e ciò che non lo è, tra ciò che è morto e ciò che è vivo. (Nel finale del videoclip di Lazarus, Bowie sparisce nell’armadio per annunciare, con un simbolico auto-seppellimento, il suo addio).
C’è la poltrona, un trono di follia, epicentro di terremoti psichici, culla del corpo esausto di Newton e magnete che attira i corpi delle sue allucinazioni, quando lui crolla altrove, come in una staffetta di riposo dal dolore.
L’orchestra -che nella rappresentazione originale suona dietro una vetrata- è sullo stesso palco/appartamento di Newton, a ridosso dei suoi patimenti: la musica è parte dell’artificio e svelamento dello stesso.

Parole che danzano, danze che parlano

Il progredire circolare annulla ogni elemento materiale di separazione con un Altrove, che è percepibile invece attraverso i dialoghi, le canzoni e le coreografie (Michela Lucenti).
Le tre Teenager, ad esempio (Noemi Grasso, Maria Lombardo, Giulia Mazzarino), aggiungono alla funzione di coro greco che hanno nell’opera originale, una presenza molto più significante: sono sempre contratte in movimenti meccanici e febbrili, come vibrassero di morte e di vita allo stesso tempo, sospese sulla linea che separa i due stadi. Esattamente come Elly (Michela Lucenti), trascinata dallo stesso incontenibile tremore.
La “normalità” che potrebbe suggerire il suo personaggio -un’assistente insoddisfatta che cerca l’amore- viene tradotta all’ennesima potenza da dialoghi svuotati di naturalezza, per venire esaltati dalla coreografia: parole che danzano e danze che parlano.
Ma anche le altre proiezioni mentali di Newton si esprimono danzando: la furia annientatrice rappresentata da Valentine (Dario Battaglia), la genuina passione impersonata da Ben (Isacco Venturini) e Maemi (Camilla Nigro).
Tutto gira, tutto si muove, niente è realmente fermo. Newton e Ragazza lo sono apparentemente, ma forse vivono di una trasparenza più concreta del reale, che mostra cosa li devasta dentro: il bisogno di trovare pace.
Solo insieme potranno farcela, solo credendo l’uno nel sogno di libertà dell’altro.

Cancellare i confini a favore di un Lazar-US

Ed è qui che i temi si universalizzano, l’alienazione di Newton diventa la nostra alienazione, di esseri umani confusi e disperati che avrebbero bisogno di cancellare i confini, a favore di un (Lazar-) US.
Del resto, come ricorda lo stesso Malosti, tra le fonti di ispirazione dell’opera ci fu il sonetto di Emma Lazarus, The New Colossus inciso ai piedi della Statua della Libertà: un’ode all’accoglienza dell’altro.
Altro che è fuori, ma anche dentro di noi.
Un concetto perfettamente contemporaneo, ma anche senza tempo.
La versione italiana di Lazarus è dunque il racconto universale, tinto di colori particolari, nei quali si può riconoscere un dolore personale, una disperazione passata o temuta, una fragilità caotica e emotiva, che può determinare una fine, ma anche un nuovo inizio: non c’è differenza. 

Il vorticare oscuro della circolarità attende la sua luce, nella speranza di andare avanti e aprirsi all’altro.