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Concerto degli Indianizer ai Magazzini sul po, Torino

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È stato un concerto davvero intenso quello che si è tenuto giovedì 26 settembre ai Magazzini sul Po. Parliamo degli Indianizer e della presentazione del loro nuovo disco Oasi. Si tratta di un disco denso di significato. L’ultimo che la band aveva realizzato, era stato Radio Totem, nel 2021; commemorazione di Matteo Givone, chitarrista del gruppo che è venuto a mancare nel 2020. Le musiche in Radio totem erano più cupe e ancora forte si sentiva la disperazione, il tormento e il sentimento di guerra e rabbia. Con Oasi predomina il senso di un luogo che interrompe il deserto, e che però al contempo ne è circondato. Infatti dai testi trapela il riferimento alle gabbie sociali del contemporaneo. La famiglia che diventa un’impresa colossale, o il riferimento all’Oro, che siamo noi, come oggetti-merce, e che come tali dobbiamo brillare come monete per esistere.

Il concerto era preceduto dai Molto male, un duo svizzero che a tratti ricordava i Popx. Brani orecchiabili e divertentissimi e l’uso degli effetti vocali, con effetti scenici impressionanti e momenti geniali.

Poi hanno iniziato gli Indianizer. La presenza scenica di Riccardo Salvini è stata qualcosa di sorprendente. Riccardo, oltre a essere un cantante di grande valore professionale, con una timbrica varia e una elevata competenza tecnica, è anche qualcosa di più che un frontman. È un attore, il suo è teatro in musica. Le influenze della band sono da rilevare negli Animal Collective o King Lizard, ma io ci ho visto anche altro. Nella presenza scenica di Riccardo qualcosa mi ha evocato Peter Gabriel ai tempi d’oro (sempre per rimanere nel tema), o anche Beck (per l’aspetto fisico) e Bowie (per il look). L’uso del mantello era sempre opportuno. Come fosse un sipario a uso del cantante. Si sa che quando si usano i teli, qualcosa di interiore emerge più facilmente. Si percepisce in Riccardo quella timidezza che gli da la forza di esporsi con delicatezza. Andando avanti così, il senso di condivisione intimo potrebbe crescere molto, perché Riccardo è un artista che studia.

Ma perché ci sia un ottimo frontman deve esserci anche una band che sappia sostenerlo. Gabriele Maggiorotto alla batteria con cambi improvvisi di ritmi e un’attività irrefrenabile , l’inventiva di Salvatore Marano ai sintetizzatori e le schitarrate indie di Marco Gervino, sono riuscite a creare un innesto esplosivo. Il sound era molto pulito, pur nella sua sporcizia. Momenti di noise misti a melodie da tormentone, che però venivano interrotte dentro invenzioni compositive surreali. La psichedelia è stato il movente della nascita di questa band, avvenuta nel 2013. Il loro nome nasce da scherzi tra amici, come uno slang, un interruttore per aprire a quel parallelo universo della festa, una magia da ricercare e ottenere in maniera immediata con la musica.

Questo concerto mi ha evocato dei ricordi teneri. Riccardo Salvini è un artista che conosco da molto tempo. Ricordo tantissimi anni fa, era un ragazzino, e mi disse “io voglio fare il musicista. Non voglio fare altro. Questa voglio che sia la mia strada”. Ora saranno passati davvero vent’anni da quella frase che ancora ricordo, ma nonostante tutte le difficoltà che comporta la musica (anche per una band come indianizer, con un grande seguito e la sala dei Magazzini sul Po piena di gente) la passione spinge queste persone a continuare, perfezionarsi, crescere, esplodere sempre di più, prometterci una rinascita, psichedelica o no, non importa, ma qualcosa.

Riccardo Salvini è un artista che ha piena la coscienza di quanto sia importante essere multidisciplinare, con il suo uso di maschere prestate dalla commedia dell’arte, i suoi movimenti graziati. È incredibile perché solitamente il mix tra rock e teatralità, rischia di essere affettato e disturbante. Non lo è stato nel loro caso. Perché c’era un perfetto intreccio ritmico tra l’interiorizzazione drammatica e l’evento sonoro.

Gli indianizer raccolgono l’interesse torinese perché offrono tutto. Il glam, il pop, la psichedelia, il rock, l’elettronica, il cantautorato e il teatro. Tutto insieme. Io sostengo appieno questa band, perché è anche di questo che c’è bisogno. Un’apertura, l’abbandono dello specialismo, la carica rivoluzionaria del pop che fugge da sé stesso. Forse è questo che vuole il pubblico che assisteva al concerto. Avere una via di fuga da sé stessi, dalle proprie ecatombi di tossicità, i propri narcisismi. Quell’oro di cui ci parlano gli indianizer, è un concetto importante. Ci ricorda quanto siamo fottuti quando brilliamo troppo.