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IN MUSIC FESTIVAL #15

di:

ZAGABRIA – 20-23.06.2022

Come down off your throne and leave your body alone / Somebody must change / You are the reason I’ve been waiting all these years…”.

Il viaggio verso la capitale croata che ha ospitato la 15sima edizione dell’InMusic Festival è iniziato con in testa le parole di Steve Winwood e la musica della versione dei Netherlands. L’idea era quella di godersi il ritorno ai Festival riprendendo proprio da Zagabria e da un programma che conferma l’InMusic tra i festival più importanti del vecchio continente. Il programma ha puntato ad essere come sempre ricco e variegato, confermando anche alcune delle band contattate prima dei due anni di fermo a causa della pandemia. Certo è che leggendo anche il bill delle edizioni precedenti non c’era dubbio sulla qualità della proposta. La vera sorpresa è stata quella di trovare sull’Isola dei Giovani del lago Jarun un clima davvero disteso, ospitale, ben organizzato sotto ogni punto di vista e capace di farti immergere completamente nel micro mondo che tutti gli appassionati di musica vorrebbero trovare in ogni occasione di questo genere: grandi sorrisi e massima disponibilità da parte di ogni operatore all’interno del parco, dai punti informativi alle tantissime aree ristoro disseminate sia per food che per beverage che hanno sempre permesso uno smaltimento della richiesta in tempi brevi (invitandoti a non dire mai “mamma che fila per una birra, ci vado dopo”); tre stage per i concerti; 4 aree dedicate ai dj set e una per il karaoke rock che fino alle 4 ha rappresentato un punto di incontro per i tantissimi presenti (stimati in circa 100.000).

Si inizia lunedì con i bulgari Nocktern e il loro misto di rock/trip hop sul main stage e i croati The Splitters che avevo segnato per il “Love music, destroy facism!” che li presenta sulla loro pagina Facebook. Siamo alle prime battute e ci si diverte provando a prendere confidenza con il posto. Arriva Paul The Walrus, che raccoglie uno dei semi dei Beatles per riproporre atmosfere 70’s anche nei visuals che corredano il concerto e poi ancora le spagnole The Hinds, lo-fi il giusto e decisamente bene accolte dal pubblico sempre crescente per l’arrivo degli Idles. Prima del quintetto di Bristol, sul World Stage l’esibizione dei Koikoi aggiunge quella punta di rock e psichedelia al clima e prepara a quello che per me è l’evento nell’evento della prima giornata. Le bacchette di Jon Beavis annunciano Colossus ed è subito chiaro che It’s coming! It’s coming! It’s coming!

C’è chi mi aveva detto che oggi gli Idles sono la migliore band live del mondo ma io sono sempre titubante quando mi si dicono certe cose e resto solo convinto che mi trovo esattamente nel posto in cui voglio ascoltare, vedere, sudare quel momento che è mio, che è di tutti quelli che lo aspettavano, che sono parte del mondo in quella parte del mondo. Il trittico Mr. Motivator, Ground, Mother fa saltare il banco che è la folla che adesso riempire l’area del main stage. Arriva anche Crawl! ed I’m feeling mani-fucking-fique. Prima di attaccare con 1049 Gotho, Talbot ci ricorda quanto la band sia grata al pubblico e quanto sia consapevole “di essere fortunati nel poter fare un lavoro che ci permette di poter parlare a così tanta gente in così tanti posti diversi del mondo”. La band è impressionante per compattezza, per suoni, per coerenza di una proposta musicale capace di ricompattare i nostalgici dei 90’s con il pubblico più giovane in un corpo unico immerso nel susseguirsi dei brani che con War, I’m Scum e Danny Nedelko portano alla fine del concerto che sarebbe potuto durare altre due ore facendoci sembrare tutti più sudati e più contenti ad ogni altro minuto aggiunto. Smash! I’m a car crash. L’impatto è esattamente questo e chi se ne fotte se sono la miglior band del momento, so solo che hanno concretizzato in questo momento un qualcosa che aspettavo da tanto. Ancora frastornato seguo l’invito di Joe Talbot che prima dell’ultimo pezzo ricorda che “sul World Stage stanno per iniziare i Fountains D.C.” e mi sposto birra in mano sull’altro palco. A me gli irlandesi piacciono per attitudine, apprezzo i loro riferimenti musicali e molti dei loro brani ma inevitabilmente mi trovo a seguire con le orecchie e la testa altrove. Il loro è davvero un set importante in cui spiccano i pezzi più conosciuti come Sha Sha Sha, I dont’ belong, Televised Mind, Too Real e il singolo I love you dall’ultimo album Skinti Fia, che sono sempre un bel sentire nonostante Grian Chatten appaia incazzato. La trovata degli enormi palloni/occhi che rimbalzano sul pubblico per tutta la parte finale del concerto è un modo per dare ulteriore dinamicità al concerto che però risente del posizionamento in scaletta: suonare dopo qualche minuto dagli Idles non credo sia facile per nessuno. Si torna al main stage per The Killers che chiudono la giornata con uno spettacolo di luci e lustrini e singoloni da far ballare tutti. Appena dopo, all’Hidden Stage suonano gli Afrodelic proprio mentre io recupero un Tesla’s Long Island da 75cl (gran bella sorpresa questo formato, bravi!) e con le orecchie sorridenti mi dico che quasi quasi appena finisco questo ne prendo un altro perché in fondo I wanna be loved, everybody does.

DAY 2

“C’è bello, c’è pulito…”, la compostezza della capitale Croata e del clima generale, aggiunte ad un meritato riposo, mi riallineano e sono pronto per tuffarmi nella seconda giornata del Fest. Assieme ai compagni di viaggio della redazione di The Clerks ci chiediamo come mai le caffetterie della città non abbiano cornetti, brioche o qualsivoglia accompagno per la colazione ma non ce ne preoccupiamo troppo e, vedendo che in tanti prendono da mangiare altrove e consumano al bar in attesa del caffè, ci adeguiamo. Dopo un giro nella città alta ci avviciniamo al parco Jarun con i mezzi pubblici che offrono un servizio costante e decisamente snello. Tutto attorno al lago è un fiorire di baretti con birre low cost e gente in acqua per un bagno rinfrescante prima dell’inizio dei concerti.

Si riparte da main stage con gli showgazer locali Neon Iglu seguiti dal rock Malady Lane che portano sul secondo palco una certa reminiscenza del grunge che fu. I toni cominciano a farsi ancora più interessanti con i Daliborovo Granje e il loro psych-rock dalle sfumature fuzzose misto a echi orientali che ne fanno, per me, la sorpresa del giorno (ascoltare il brano Haloperidol per credere). Il duo Neon Wife ci culla su atmosfere electro-wave prima di scoprire all’Hidden stage i Freaktion, giovanissimi ma già forti della personalità e dalla voce di Maja Šebelić. Torno al main stage e mi calo nelle atmosfere afrobeat intrise di pace e solidarietà tra i popoli di Amadou & Mariam, già ospiti del Fest nel 2008. Esotici i locali Šumski, attivi dal 1991 e molto apprezzati dai concittadini. Un salto all’Hidden per i Tùs Nua prima di una meritata birra (75cl is the way) e del concerto dei White Lies sul main stage. Nell’atmosfera si inizia sentire il profumo dell’evento di oggi, a breve sul palco arriverà Nick Cave con i suoi Bad Seeds e mi scuseranno i Porto Morto per la difficoltà nel concentrarmi sulla loro esibizione.

Alle 22.30, per un attimo, si spengono le luci sul palco e “boom!” si entra nel mondo di King Ink con Get Ready for love e There She Goes, My Beautiful World. È musica, sono parole, sono corse sulla passerella, il ponte perfetto che unisce lo spettacolo sul palco a quello appena sotto. Nessuno in questo spazio unico si risparmia: O Children diventa patrimonio condiviso a una sola grande voce; It’s only love with a little bit of rain; The Beast it cometh, cometh down; Boom Boom Boom, Cry Cry Cry!; He’s a god, he’s a man / He’s a ghost, he’s a guru. Cave è addosso al suo pubblico che sta addosso a Cave mentre i Bad Seeds ci ricordano che siamo terreno fertile, che dobbiamo prenderci cura di noi, che dobbiamo annaffiarci il giusto di vita, di vino o fosse anche di lacrime ma annaffiarci per evitare di rompere l’equilibrio naturale delle cose che esiste, e loro sono lì esattamente per dimostrarcelo. Del finale con Into My Arms, Vortex e Ghosteen Speaks non credo di riuscire a raccontare molto e tutto sommato credo sia giusto così, credo sia giusto invitarvi ad andare a un concerto di Nick Cave e raccontarvelo da soli.

Mi guardo attorno, è tutto vero. Ho bisogno di bere qualcosa, di annaffiare, di fumare come si fuma dopo il sesso. Attorno a me solo facce partecipi e sorrisi eloquenti del “c’eri pure tu, che cazzo dobbiamo aggiungere?”.

L’Hidden stage è distante quel tanto che basta per darmi il tempo di fare due passi e liberare in testa uno spazio per i Dry Cleaning, altra band che aspettavo di vedere dal vivo e che mi ha confermato la bontà del progetto. Il set è robusto, sotto palco c’è un pogo discreto, la voce di Florence Shaw catalizza l’attenzione: Many years have passed but you’re still charming / Rose falling and exploding / And you can’t save the world on your own / I guess. Lo credo anch’io, a fine set sorrido, ringrazio e mi perdo tra gli alberi nel dj-set allestito nel boschetto a pochi passi dal palco.

DAY 3

Senza badare alla sveglia, ci ritroviamo in mattinata ad immergerci in una Zagabria viva ma mai caotica. Il centro città è accogliente e offre ristoro a prezzi più che accessibili. Oltre piazza Jelačića, noto per le campagne militari e per aver supportato l’abolizione della servitù della gleba, ci troviamo ai piedi della funicolare che lo collega con la parte alta. Incuriositi dal parco che si intravede alla sinistra, ci incamminiamo e troviamo il Grič Tunnel, che ha offerto riparo ai cittadini durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale e che, dopo aver ospitato i primi rave cittadini, oggi divide il centro attraverso i suoi cunicoli alti e freschissimi. Raggiungiamo il parco per la terza giornata di concerti e provo a rimanere calmo pensando al fatto che stasera suoneranno i Deftones. La voce e la chitarra Billie Joan ci accolgono per un inizio soft solo all’apparenza perché lei è brava davvero, è tosta, decisamente un buon inizio. Seguono i Šarena Pojava e l’atmosfera in zona main stage sa di spirito da concertone del primo maggio in Piazza San Giovanni nei primi anni 2000. Sale l’intensità e arrivano i riff e i chitarroni degli Ochi sul World Stage. Mezz’ora interessante. Prendo al volo una birra (c’è sempre qualcuno libero) e arrivo sotto il palco principale per i Gogol Bordello con mezzo bicchiere vuoto e la convinzione che avevo chiesto quello da 75 ma oramai… Sul palco un enorme braccio col pugno chiuso e i colori dell’Ucraina fanno da sfondo al concerto che nel giro di un paio di brani diventa una festa tzigana in cui ballano tutti, tutti, tutti. Finisco nel pogo con Not a Crime, Immigrant Punk e Wonderlust King che, una dopo l’altra, mi fanno risalire anni e anni di centri sociali. Eugene e Sergej sanno sicuramente come tenere alta l’attenzione e lo spirito di fratellanza e condivisione durante tutto il concerto. Dopo Think Locally, Fuck Globally si arriva alla fine del concerto con l’immancabile crowd surfing di Eugene sulla cassa sostenuta da un pubblico che dire felice sembra dire poco. Birra al volo e si sentono già i primi riff dei Them Moose Rush per una mezz’ora di noise rock godibile che anticipa l’arrivo dei Royal Blood. Grande botta sin dai primi accordi di Typhoons, la band inglese è potente e conferma dal vivo tutto quello che di buono prometteva su disco. Fuga veloce verso l’altro palco per Sleaford Mods con la testa al main stage in preparazione per i Deftones. Partono con Genesis, dall’ultimo disco Ohms, ed è subito un muro sonoro quello che ci arriva addosso. Abe Cunningum alla batteria non ha e non dà tregua, il suono della band di Sacramento passa anche dal suo modo inconfondibile di picchiare forte e preciso. Arrivano Be Quiet And Drive (far away) e My Own Summer (shove it) e il me appena maggiorenne mi sorride dal profondo del suo cuore. Chino Moreno urla, suda rincorre le mani del pubblico e alla fine di un pezzo chiede “quel Jägermaister di cui parlavamo prima, please”. Digital Bath è un capolavoro. You’ve seen the Butcher con il suo I wanna watch the way / You creep across my skull è da urlo e urliamo mentre aspetto tantissimo Ceremony. Suonano ancora, bevono una birra in un siparietto in cui Chino abbevera i compagni di viaggio dopo aver ringraziato i presenti di “non essere rimasti a casa a guardare Netflix”. I pezzi scorrono, suggestiva Sextape, e si arriva a Change (in the house of flies) ed è nuovamente un coro unico: I watched a change in you / It’s like you never had wings / Now, you feel so alive / I’ve watched you change. Dopo un rapido cambio di maglia di Chino, la band rientra per il finale con 7 Words ed è tutto un Suck! Suck! Suck! Suck! Suck! Suck! Suck! Suck! Suck! Sono felice, non dico che mi aspettassi Bored, ma almeno aspettavo tantissimo Ceremony e non l’hanno fatta, ok. Avranno avuto i loro cazzo di buoni motivi, ok. Suck! Suck! Suck! Suck! Suck! Suck! Suck! Suck! Suck!

Offro in silenzio un Tesla’s Long Island a quel ragazzetto felicissimo di cui prima, non serve chiedergli niente. Dopo una ventina di minuti all’Hidden Stage suonano i mantovani A/lpaca, che tra rock, psichedelia ed echi kraut hanno chiuso bene la terza giornata di concerti, bravi davvero.

Certo, incontrare Chino Moreno e Lance Jackman, divertiti, sotto la Tesla’s Tower al centro del parco Jarun, a bere una birra in tranquillità e fare air-drumming mentre il dj passava Sabotage dei Beastie Boys l’ha chiusa ancora meglio. Ma questa è un’altra storia (cit.).

DAY 4

Birre da mezzo litro a un euro e cinquanta. Tengo a mente questo promemoria perché il prossimo anno voglio proprio vedere cosa (e come e quanto) cambierà con l’entrata della Croazia nella grande famiglia dell’Euro. Arrivati all’ultimo giorno dell’InMusic Festival, della frequentazione della città, della confidenza con il luogo e i suoi modi e suoi tempi, arriviamo tardi al parco Jurun. Non tardissimo, ma i primi concerti sono andati. Sul main stage la scritta è enorme: The Comet is Coming. La band londinese ci mette pochi secondi a travolgere tutti: Summon the Fire, Blood of The Past e tanto jazz elettronico infiammano le vertigini dalla coda della cometa sulla quale tutti vogliamo salire per gustarci il momento in cui The Universe Wakes Up. Grande band, grande concerto. Un bicchiere da 75cl prima di spostarci sul World Stage per i Tamikrest. “Un deserto ci ospita, una lingua ci unisce, una cultura ci lega”, credo che sia quella capace di mescolare il blues con il deserto, la psichedelia, il rock e certe percussioni proprie delle band africane. Altra grande band, altro gran concerto. Sul palco dell”Hidden si accavalla il concerto degli LHD, che con il loro sound ’60 tra surf-rock e garage hanno aggiunto un altro tassello importante alla bellezza di questa ultima giornata. Róisín Murphy, è pronta a dare spettacolo sul main stage ma con la testa sono già a quello che era il momento più atteso di oggi: i Rival Sons! Si parte con Too Bad dall’ultimo album Feral Roots, del 2019. Il sound della band di Long Beach è granitico e lo dimostrano con una Electric Man che fa saltare il pubblico a colpi di riffoni. Segue una versione solo chitarra e voce di Shooting Stars in cui un commosso Jay Buchanan canta My love is stronger than your hate will ever be dedicandolo alla difficile situazione della guerra che, non dimentichiamolo, è proprio a due passi da qui. Torna la band e Mike Miley ricomincia a pestare sulle pelli come se fosse l’unica cosa giusta da fare in quel momento, e probabilmente ha ragione lui che alla fine del set rientra richiamato dal pubblico che chiede “One more! One more!” e ringrazia di cuore con lo sguardo di chi avrebbe suonato per almeno un’altra ora buona. Ci si sposta in massa sul palco centrale per i Kasabian che fanno il loro spettacolo sparando luci e suoni perfetti per la chiusura del Fest, o almeno per la chiusura del main stage perché all’Hidden devono ancora esibirsi gli Snapped Ankels. I londinesi sono delle bestie da palco, per attitudine, suoni e immagine da mostri che sembrano scappati fuori da Carcosa (se non avete visto la prima serie di True Detective mi spiace per voi). Post-punk misto a elettronica, qualcuno dice art-rock ma poco importano le definizioni quando i pezzi sono belli e regalano l’ultimo pogo di questa edizione dell’InMusic e, stavolta sì, una grande grande chiusura con il loro singolone I Want My Minutes Back. Va bene così, va davvero bene così. Sulla chip card ho ancora qualche kuna, al banco hanno ancora quel Tesla’s Long Island da 75cl e lo scambio mi sembra equo. Il parco è ancora vivo, gli stage con i dj set sono pronti a far nottata nonostante qualche goccia di pioggia che sembra non interessare a nessuno. Va bene così perché nessuno vuole andare via e aspettare l’anno prossimo per godere di altra musica, altri concerti, altre facce soddisfatte ad ogni esibizione. Certo, ci toccherà farlo. Ci incamminiamo verso l’uscita senza voltarci indietro, non siamo la moglie Lot e quella non è Sodoma.

Nel silenzio del ritorno, che è riappacificante, torno a quel brano dei Blind Faith che chiosa con “And I’ve done nothing wrong / But I can’t find my way home”.

“Bene, ma forse…”, mi sono detto, “forse stasera vado via convinto che casa è dove c’è quella musica che ti fa sentire a casa”.

Accendo una sigaretta pensando che quel brano è del 1969 e che in questo maledetto 2022 era anche ora che io mi convincessi di qualcosa.