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Nessuno ha fatto niente per la tua libertà. I Karate a Festivalle (Agrigento, Valle dei Templi, Estate 2022)

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Nella vita di tutti (più o meno) ci sono corsi e ricorsi, occorrenze e ricorrenze, cicli che si aprono e che non si chiudono mai, lezioni che si imparano a stento e altre che non ti scordi più. Ad esempio, il fatto di avere una sorella più piccola di me, di circa quattro anni e mezzo mi ha messo subito di fronte a responsabilità che solo i fratelli maschi maggiori (con un genitore unico a portata di mano) capiscono: da cosa cucinare per lei quando spesso siete a pranzo da soli, a evitare di mandarla in ospedale lasciando pericoli sparsi per casa. Ma anche, la tv giusta da guardare (poca per cortesia che siamo negli anni ’80), i libri da farle leggere, la musica da ascoltare per passare il tempo: ecco, a parte essere una cosa che ci è rimasta appiccicata addosso anche ora che siamo intorno ai famigerati ‘anta (la musica, ovvio), quello è un problema che non abbiamo mai avuto, essendo cresciuti in una casa molto musicale, con una discografia ricca e tipica di quegli anni, in buona parte di proprietà e, a quanto pare, in parte trafugata ad una radio locale. Ovvio che di certo non ti aspetti quando oramai sei più che adolescente, che la tua sorellina (ancora ‘ina) di ritorno da un viaggio in furgone per una trasferta (un’altra di quelle cose in comune, il basket, non il furgone) ti dia due cd masterizzati (male, adesso siamo nei ’90 a base verbatim) che ti aprano un mondo nuovo e al tempo stesso familiare: tutto questo paragrafo introduttivo per dire che mia sorella minore un giorno mi ha fatto scoprire “Karate” e “In place of real insight”, in un periodo in cui ascoltavo già musiche altre, ma mi ero perso il quartetto di Boston (e tutto quello che la Southern Records pubblicava in quegli anni, se è per quello). E anche che ovviamente non era proprio farina (ehm) del suo sacco ma di una compagna di squadra più grande e insospettabile (in quanto a gusti musicali). Questo andava detto, per chiudere correttamente un cerchio che ci vede infine, fratello, sorella e famiglia del primo, correre per (ri)vedere i Karate dal vivo in occasione di Festivalle, al giardino della Kolymbetra, in occasione di un festival giovanissimo in una location unica. Insomma, terrore puro: sarà’ un concerto di quelli jazzati a cui ci avevano abituato prima dell’arrivederci nel 2005? O una rimpatriata a base di nostalgia e musiche un po’ fiacche (come purtroppo ci tocca dire dei concerti in solo del buon Geoff)? Nessuna di queste cose, in realtà.

Arriviamo nel pomeriggio, sotto l’impietoso sole siciliano del 4 agosto e zero brezza. Il percorso per arrivare a questa area concerto (ce ne sono diverse nel festival, sparse in giro per templi e giardini vari) passa dietro il palco, e la prima sorpresa è che i “ragazzi” sono ancora sul palco per il sound check, non per perfezionismo d’altri tempi, quanto per un aereo in mega ritardo (motivo per cui salta anche l’intervista programmata dai vostri affezionatissimi…). Ma c’è subito il bis di sorpresa: sono in quattro. Il tempo delle solite menate da festival, file, biglietti, accrediti e compagnia cantante ed entriamo mentre loro scappano ad una cena (che sarà stata di quelle veramente veloci). Per ammazzare il (poco) tempo che bisogna aspettare per il live vero e proprio, niente di meglio di guardarsi intorno per scoprire che siamo in compagnia di praticamente ¾ di musicisti isolani, riveriti negozianti di vinili, e tutta una truppa di aficionados (in formato famiglia), una truppa che personalmente, vivendo in Inghilterra, non vedevo riunita dal concerto dei Mogwai ad Ypsigrock (fate voi i conti degli anni).

E poi comincia. Ed è una bomba, suonano praticamente da quasi tutta la loro discografia, soprattutto quella pre-jazzetto, a scapito degli ultimi dischi. E sono in quattro, compreso Eamon Vitt (ci tengono a farci sapere che fa’ il medico, dovesse servire) per più di un quarto di set alla fine, quello ovviamente dedicato ai due dischi di cui sopra. E suonano durissimo e senza fronzoli, a parte i pantaloncini da turista ammericano e nonostante diversi problemi tecnici noiosissimi. In pratica un’odissea di amore emo-core, con qualche puntata solistica che perdoniamo al buon Geoff, cantate a squarciagola del pubblico pagante (“Every Sister” e “Original Spies” su tutte) e pezzi praticamente disseppelliti per l’occasione (“Bodies” e “Sever”). La voce di Geoff Farina è praticamente uscita dal 1997, senza i segni del tempo che è passato, e la maturità con cui il trio affronta il materiale più recente (e probabilmente anche la nostra disponibilità meno fedayin data l’età media del pubblico) senza mollare dinamiche a scapito della finezza rende molti pezzi “dimenticabili” (penso ad alcuni di “Pockets” tipo “With age”) delle vere e proprie ri-scoperte, soprattutto grazie al duo ritmico che non perde un colpo in quanto a intensità e incastri, molto di più sul versante idratazione. La scaletta è lunga e ci sono un paio di lunghi momenti di dialogo a base feedback fra le due telecaster sul palco (alla faccia dei problemi di udito). Il tutto in un luogo magico. Il cerchio, forse davvero e’ chiuso. 

Senonché. Viene da pensare, a vedere concerti come questi (per la cronaca sold-out) che forse l’isola è pronta per i salti di qualità in termini di contenuti di altri festival europei (come da tempo i padrini di Ypsigro sostengono da tempo), che noi ‘entenni potremmo finalmente fare la differenza in un mercato locale dopato da youtuber scarsi e trapper già passati di moda: lasciamo i ventenni a casa o in piazzetta a rincoglionirsi di tutorial e tatuaggi farlocchi e prendiamo d’assalto, premiando, il coraggio di alcuni direttori artistici. Magari fra qualche anno ci saranno molti più festival medio-piccoli da sostenere e frequentare e riusciremo a salvare la prossima generazione dai Me-contro-sapete-benissimo-chi. Nel frattempo, lunga vita alle arti marziali.