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Raccomandazioni #38: Marina Herlop – Pripyat

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È da qualche mese che Pripyat, il nuovo disco di Marina Herlop, rimbalza lungo le mie giornate. L’ho scoperto totalmente a caso, quando una piattaforma di streaming mi ha suggerito l’ascolto di miu, e da allora la stessa piattaforma continua a suggerirmi pezzi dell’album ogni volta che un altro disco finisce. E io me li godo volta per volta. È come se l’album si rigenerasse a ogni nuovo ascolto, come se i frammenti di cristallo che lo compongono si riconfigurassero di continuo. La trasformazione e il rifarsi della vita d’altronde sembrano parte dell’estetica di questo album – come la lumaca che diventa donna della copertina, o la mucca che viene partorita nel video di miu.

Marina è una compositrice catalana, pianista e cantante di educazione classica. All’altezza del suo secondo album (Babasha, del 2018) ha cominciato a sporcare di elettronica la sua formula. In occasione di Pripyat si è chiusa in una casa tra le colline aragonesi, e si è sforzata di imparare a usare Ableton Live. (anche questo mi dà simpatia verso di lei, visto che mentre ascoltavo il suo disco mi rompevo anch’io la testa su Ableton, e sulle continue illusioni e delusioni che fanno parte dell’imparare a fare musica col computer). La formula pianoforte e voce dei dischi precedenti, per quanto sperimentale, ne è venuta fuori infranta e rifratta. Glitch, piccole esplosioni, aperture dello spazio e improvvise contrazioni stravolgono le armonie celestiali che Herlop intona con la voce e la tastiera.

Tanto la voce quanto la musica si scompongono e ricompongono in particelle ossessivamente ritmiche. Marina non pronuncia quasi mai vere parole. Mescola lingue, inventa parole, e usa la grammatica come puro strumento, ispirandosi alla scansione sillabica del Konnakol, un’arte vocale percussiva propria della musica carnatica dell’India del Sud. Le continue sovrapposizioni della sua voce le danno un tono a volte sognante, e altre volte puramente ritmico, come in Shaolin Mantis.

La sua voce incantata e percussiva allo stesso tempo dà alla sua musica un sentore quasi ancestrale: a volte sembra di sentire i mantra (anch’essi in lingue inventate) di Lisa Gerrard nei Dead Can Dance. L’elettronica che attraversa Pripyat, paradossalmente, accentua questa dimensione ancestrale. Come se ascoltassimo le rovine di un’arte elettronica recuperata dentro un mondo post-apocalittico. Pripyat, del resto, è la città Ucraina fondata per ospitare i lavoratori di Chernobyl, e diventata, dopo la tragedia, un sito fantasma nel quale la vegetazione ha spaccato le strade e i branchi di cani si sono impadroniti dello spazio. Quasi un folk immaginario, che trova perfetta collocazione nel catalogo dell’etichetta PAN (per la quale è uscito il disco), una casa discografica che ci ha abituati alla sua elettronica dal sapore al tempo stesso arcaico, futuristico e apocalittico.

Pripyat, comunque, non è propriamente un disco oscuro. Suscita emozioni che si fa fatica a riconoscere, come se l’ascolto ci portasse in un altrove emotivo, a volte delicato e altre volte misterioso. Già solo per questo vale la pena ascoltarlo.

Potete ascoltare e comprare Pripyat qui.

Qui un’intervista video a Marina Herlop, che sembra tra l’altro essere una persona molto simpatica.