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Raccomandazioni #4 : Un rituale di nome Rainmaking – s/t

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Oggi piove, l’estate è alle porte ma non importa. Forse è meglio così, l’acqua viene giù, bagna e lava. Nuovi semi germineranno e nuova linfa scorrerà. D’altronde l’umanità ha sempre cercato la pioggia. Esistono tracce di rituali per far piovere in tutti i continenti o quasi. Una danza, un canto, una preghiera, un rito propiziatorio per far tornare la terra a dare frutti e mettere in pace l’animo preoccupato della comunità che la coltiva.


Un rituale simile esiste anche a Portland, in Oregon, e guarda caso si chiama Rainmaking.

Millie, Caitlin e Sam mettono su un rito per far tornare le loro menti e le loro carni fertili. Si supportano nel tentativo di superare il loro vissuto e generano una pioggia di suono e urla che lava via la fatica di questa prova. Vite contro quelle di questo trio, abuso di droghe, malattia mentale (se così la dobbiamo chiamare) e sessualità non binarie. Dichiaratamente anarchici, i Rainmaking incarnano la perfetta e sgraziata opposizione al pensiero borghese comune, di cui speriamo di liberarci presto.
Millie e Sam sono cresciuti insieme e suonavano in Sky Above And Earth Below. Vogliono suonare ancora, ne hanno bisogno, e insieme a Caitlin per due anni rodano la formazione e perfezionano i pezzi, l’affinità che ne è venuta fuori si avverte tutta. Gli strumenti fluiscono compatti generando uno post-hardcore/screamo molto battuto, si riempiono le orecchie (o se preferite “mysterious gay hardcore 😉 ).

Attorno al 2020 cominciano a suonare in giro e, visto che la pandemia ha deciso di bloccare tutto, registrano il loro EP omonimo, una delle cose buone che ha causato sto cazzo di virus. Ne esistono delle cassette, stampate da Zegema Beach Records e Law of Cycles e a luglio uscirà un dieci pollici per Larry Records.

Dopo un inizio parlato il disco è una corsa sostenuta e senza pause. La prima tappa è Moonstrike, l’essenza di un corpo fragile si riversa nelle strade, come lo smog, rotta ma illuminata dalla luce riflessa della luna. Le chitarre sono distorte e dilatate, dal fondo dei riff emergono delle melodie. Batteria e basso generano ritmi serrati, irruenti e caotici. Ad un tratto tutto si stende, i colpi diminuiscono e l’ascoltatore respira. I polmoni si aprono e si riempiono d’aria. I testi sono brevi ma trascinati dalle voci, riempiono lo spazio del disco senza sopraffare la musica. Come spesso succede in questo genere e affini, la sensazione suscitata dalla musica e dal cantato, nascosto dalla musica stessa, superano i confini e la lingua rendendo diretta ogni canzone.

Si passa a Drugs, ci si confronta con il liberarsi dalla sostanza. Quello che comincia come una splendida sensazione poi finisce in un nero incubo. Boned parte piano, dopo poco più di un minuto cambia tutto, uno sbalzo di umore. L’andamento del pezzo e il testo riprendono l’idea di fragilità, il conflitto interiore e l’instabilità del vivere con se stessi. Poi tutto riprende a correre, con un tono più sicuro, anche se inquieto “Comfort/ no comfort, on and off/back and forth”. A questo punto sei cotto, e il brodo in cui ti sei cotto è letteralmente Potliquor. Vuoi uscirne, ma è uno sforzo “out of reach”. La sostanza ti prende e tu proverai a stirarti fino a che non sarai una stella morente (“I’ll be stretching til i fuck off for good make me a dying star make us all”).

Quello che chiude il disco è un incendio controllato (Controlled burn), è il desiderio dei tre di liberarsi dai pesi che li schiacciano. Un avvicendarsi di parti attraversa screamo, hardcore più classico, al volo un arpeggio che richiama quasi gli At the drive-in e poi caotico ti porta al finale. Il disco si chiude netto.

Netto come il limite su cui si trovano i tre di Portland.