di: Stefano Barone
“Il progetto è nato un po’ di tempo fa: con Fano ci conosciamo da anni, lui è un producer di hip hop con cui ho già collaborato in passato. All’inizio, un po’ ingenuamente, avevamo pensato di coinvolgere nel progetto alcuni rapper internazionali, proponendo i nostri brani come basi, ma abbiamo rapidamente fatto marcia indietro. Prima ancora di ascoltarli, questi volevano vedere i soldi, i soldi ovviamente non c’erano e quindi abbiamo lavorato sulle canzoni, originariamente più lunghe perché avrebbero dovuto fare da supporto alle voci, le abbiamo riarrangiate e fatte diventare come delle pillole: ecco, questo disco è una raccolta di pillole.“
Paolo Spaccamonti è un chitarrista che gira da tempo nei circoli avant internazionali. La sua musica vive spesso di spazi e rarefazioni, ma non si preclude nessuna direzione sonora: nel mio cuore c’è per esempio Spaccamombu, clamoroso progetto afro-sabbathiano condiviso coi Mombu. Paolo è la metà di Spano, ma dove avrebbe potuto agevolmente integrare i beat con droni e atmosfera, decide di fare (anche) tutt’altro. Tante altre cose.
Stefano “Fano” Roman è un beatmaker di formazione old school. Sulle sue produzioni hanno sfilato, tra gli altri, Clementino, Paura ed Ensi. È l’altra metà di Spano, ma dove avrebbe potuto adagiarsi a fare il Flying Lotus, decide di fare (anche) tutt’altro. Molto di più.
Spano, il duo formato da Spaccamonti e Fano, è – volendo – un progetto di hip-hop strumentale. Un hip-hop strumentale che però non rimane incontaminato; che rifiuta di limitarsi a stare in sottofondo, a fare atmosfera per le vostre serate, o a produrre la zona di comfort del canale con la ragazzina che studia e il gattino e la pioggia che scroscia fuori dalla finestra. Potete tenerlo in sottofondo, se volete: fa da eccellente colonna sonora; ma da ognuna delle sue tracce – dalla loro morbidezza, dalla loro vibrazione notturna – emana un senso di minaccia.
Potremmo ricominciare dalla citazione con la quale ho aperto, tratta dalla prima (credo) intervista al duo. Quel rifiuto dei rapper può essere letto come la spia di un problemino nelle scene hip-hop di oggi, ma io penso che alcuni di quei rapper, in fondo, si siano cacati addosso di dimostrare le loro skill su beat simili – beat che nella loro naturalezza sono inafferrabili, e che ti scivolano da sotto il culo quando provi a rapparci sopra.
Non ho numeri alla mano, ma la mia sensazione è che le chitarre stiano vivendo una luna di miele all’interno dell’hip-hop, come se il rap avesse prima “mandato in soffitta il rock” (quanto volte lo abbiamo letto?) e poi ne abbia inglobato e risputato fuori i codici e la grammatica. Penso alla passione per mezza scena trap internazionale con le nostalgie pop-punk (o alle conversioni deliberate alla Machine Gun Kelly), ma anche alla zona grigia in piena espansione che, nel nostro paese, si apre tra rap e itpop, da Carl Brave in poi.
Spano, però, (ancora una volta) è altro. Sfugge alle modalità più comode di ibridare chitarre e beat – sentite l’arpeggio gelido e immobile della titletrack, attraversato da folate di drone e dagli schiaffi delle basse frequenze. Sentite il singolo Esther, in cui non si capisce dove finisca Spaccamonti e dove cominci Fano: un tappeto mobile di texture densissime che mi ha fatto pensare al trip-hop e a certe vecchie cose della Hyperdub. Altrove, la chitarra costruisce dilatazioni, partecipando al fortissimo sentore di dub che hanno molte delle produzioni. L’esempio più profondo è forse Sheep; ma ascoltate anche i bassi di piombo in Anaconda e la melodia (sample di fiati più voci? Synth? Boh!) che interseca la sensualissima chitarra funk di Crollo e dà il senso di magnificenza della sezione fiati nel roots reggae di una volta. Anche qui: morbidezza sexy avvelenata da una corrente d’inquietudine.
In questi beat storti si fanno spazio anche suggestioni africane, nelle atmosfere se non direttamente nei suoni. La caligine dell’arpeggio di Horace fa molto blues del Sahara, come anche l’arpeggio aggressivo e gli incastri ritmici di Gaetano – anche qui, tra l’altro, siamo nei territori sommersi del dub, e un molto conciliante campione vocale contribuisce all’atmosfera di minaccia latente. E poi c’è il cowbell che introduce A.s.e.e., magistrale esercizio di chitarre sbilenche su breakbeat. Come degli Slint reinventati nel boom-bap.
È musica multiforme, quella di Spano, che mantiene un clima costante di colori scuri, mentre le forme melodiche e ritmiche si avvicendano e ricompongono, come le chitarre e i beat nel loro continuo ricombinarsi. Musica che vi si para di fronte e un attimo dopo vi sta dietro, che si presta a mille maniere diverse di ascolto. Così che questi venti minuti finiscono e poi rimettete su il disco.
Spano esce per Liza e Love Boat. lo potete comprare qui e qui.