di: Stefano Barone
Quando leggerete queste raccomandazioni sarete già in procinto di mangiare il panettone (sticazzi: qui in Inghilterra lo mangiano da mesi). Mentre aspetto il mio Spotify Wrapped di quest’anno e mi riprometto di mandarli affanculo e passare a Tidal da gennaio, rimugino sull’annata musicale e vi racconto qualche album che mi ha ossessionato nel corso del 2023, ma al quale non mi sono dato pena di dedicare una raccomandazione completa su queste pagine.
Il primo di cui parlo, che mi porto dietro da inizio anno, è “Dream Hacker” di otay:onii. Lei è una cinese che fa la spola tra il Paese natale e gli Stati Uniti: ha suonato in gruppi di rock estremo sperimentale vario (recuperatevi almeno gli Elizabeth Colour Wheel), e dal vivo si presenta come posseduta, picchiando il suo synth abbigliata come una specie di zanzara demoniaca (e sfoggiando a volte un lungo capezzolo-spike). Eppure, queste informazioni potrebbero essere fuorvianti per parlare di “Dream Hacker”. Che è un disco a suo modo caldo e avvolgente, e dall’enorme sensibilità pop – per quanto qui stiamo parlando di un pop indefinibile e di un’intensità creativa che non si abbina esattamente a hook e ritornelloni. otay:onii dà mille forme alla sua voce stupenda e costruisce brani che sembrano avere riferimenti ordinari, ma che puntualmente scappano dalla cognizione di chi ascolta (è synth-wave? Industrial? Trip-hop? Roba Pan?). Ne viene fuori un disco misterioso, ma che allo stesso tempo emoziona a un livello immediato. Da raccomandare anche perché il singolo è scritto dal punto di vista di un gabinetto:
“Dream Hacker” esce per bié e lo potete comprare qui.
Un disco più recente, che sto amando moltissimo, è “Chasing Stateless”, collaborazione tra il duo iraniano/canadese Saint Abdullah e il producer irlandese Eomac. Già i titoli di album e singoli brani evocano il senso di costante irrequietezza e caos politico abbracciato dalla musica di Muslimgauze. E come in quel caso, siamo di fronte a brani elettronici spesso violenti e disturbanti, costruiti su sample di materiali musicali e non che provengono dal folklore d’origine dei Saint Abdullah. Il gusto per i campioni è stupefacente, come lo è l’estrema varietà musicale del disco, tra breakbeat narcotizzati (Pretense of Neutrality), IDM, assalti percussivi (No negotiation, no conferences and no dialogue) e scorie industriali (Put by nothing). Tutto è immerso dentro una sporcizia esemplare, poetica, ma c’è anche spazio per la finale Lonely is our non-existent house yard, che – non scherzo – è forse la cosa più dolce che ho ascoltato nel 2023.
Il disco esce per per Planet Mu, che dio l’abbia in gloria.
Se invece la dolcezza non vi interessa potete ascoltare “Landscape of Thorns”, primo album lungo di Sense Fracture – musicista, attivista, organizzator* di eventi e metà della benemerita Haunter Records. Anche questo è un disco programmaticamente politico, e come “Chasing Stateless” è una riflessione sulla violenza dei confini. Quando Sense Fracture si è trovat* a fare uscire il disco proprio nei giorni del massacro israeliano a Gaza, ha deciso di devolvere i proventi del primo singolo a due organizzazioni che sostengono l’organizzazione di lotte pro-Palestina in Europa (tra l’altro, il singolo figura bei remix di Deena Abdelwahed e ABADIR – già che ci siete, sentitevi anche il nuovo bellissimo disco di Deena).
“Landscape of Thorns” si può ascrivere a quei dischi che partono da un suono post-rave decostruito, ma che rispetto alla pretenziosità della conceptronica preferiscono mettere il proprio sound design al servizio di violenza, caos e oscurità. Il disco vuole proporre musica estrema post-genere, e non è un caso che tra i featuring ci siano le voci disumane di ?Alos, dei Duma e di Elvin Brandhi. Ma c’è anche una vena folk, che riprende e smonta le scansioni ritmiche di certe musiche tradizionali italiane (dal saltarello alla pizzica) e nei momenti migliori trasmette anche un senso di inquietudine profondamente mediterranea:
“Landscape of Thorns” esce per Haunter Records.
Restando in Italia, voglio parlare di un album uscito un annetto fa, ma che colpevolmente ho scoperto solo adesso. Si tratta di “Napoli Undercore” dei (guarda un po’) napoletani Specchiopaura. Ne parlo perché a Dicembre esce una nuova versione in vinile per Hundebiss, Legno e Thru Collected, ma soprattutto perché è roba che fa male perdersi, perché parafrasando l’imbecille al cinema di Io e Annie, ti colpisce a livello viscerale. Sulla carta è una raccolta di tropi sonori da zoomer – tra trap, sadboy e un hyperpop per niente sbrilluccicante. Nella pratica è musica in esplorazione continua, inafferrabile, istintuale e… commovente. È difficile parlare di “Napoli Undercore” senza tirare fuori trite espressioni giornalistiche come “urgenza di comunicare”, ma questo è – nella sua sporcizia che suona quasi segreta, nelle chitarre lo-fi e nel senso di stare continuamente al di là delle barriere artistiche. È la musica come forma creativa di esistenza che uno si illude di poter ancora trovare dopo anni e anni di musica e di, appunto, trite espressioni giornalistiche. E ogni tanto, a forza di illudersi, uno la trova.
Qualche altro consiglio di fine anno al volo: la maestosa e ineffabile musica post-vaporwave di Frenton Cantolay, nuovo album del ravennate Mondoriviera. La sofisticatissima post-trap delle glorie mancuniane Rainy Miller e Space Afrika in A Grisaille Wedding. Saccades, incontro di musica elettronica europea e improvvisazione radicata al folk ugandese, risultato della collaborazione tra Ocen James e Rian Treanor. E la maestosa posse track حرة (Free) di Mc Gaza featuring rapper di mezzo mondo, per un 2024 in cui la Palestina sia finalmente libera.