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Raccomandazioni #51: Cold Britannia. “I was born by the sea” di Richie Culver

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A fine aprile è uscito l’album di remix dell’album “I was born by the sea” di Richie Culver. Ne approfitto per parlare del disco originale, che è uscito negli ultimi mesi del 2022, ma che da allora continua a crescere in me come un ascesso (cit. proprio una delle canzoni del disco).

Per raccontare “I was born by the sea”, in effetti, bastano stralci dei testi. Non perché la musica sia irrilevante, ma perché viene fuori esattamente da quel qualcosa che si trova tra le pieghe delle parole di Culver.

Lacrime sulla stagnola

Far rimbalzare ciottoli in una pozzanghera di fianco al macello, di fianco al macello

Sognavo di non far nulla/tutti i giorni, sette giorni la settimana/il mio sogno si è avverato/TV diurna/niente colazione/annoiato dal non avere un soldo

Dormo/con una mazza da baseball/accanto al mio letto […] materasso sporco di sangue/fa che il nostro amore cresca/come un ascesso

Richie Culver si è fatto inizialmente conoscere come artista visuale. C’è una corrispondenza perfetta tra la brutalità minimale della sua rave art e la musica che ha fatto uscire negli ultimi anni. Le sue mostre, i videoclip, le parole che scandisce come se fosse un navigatore satellitare col cuore spezzato, le texture sonore afasiche: tutto esprime un vissuto, un’educazione sentimentale cresciuta nel pieno dell’austerità. Tutto racconta la sensazione di stare sprecando la propria vita in un’Inghilterra terrificante, una sensazione di essere nulla che sembra a volte avvicinarsi a una forma di beatitudine. Come in Pigeon Flesh: una persona guarda un cane che sbrana un piccione morto, e capisce che quello è il momento più significativo della propria vita.

“I was born by the sea” è stato creato con mezzi di fortuna: Culver dice di aver usato qualche synth e qualche drum-machine al massimo della sua abilità, ma al minimo delle loro potenzialità. La musica che ne è venuta fuori è tanto stilizzata quanto viscerale. L’influenza del rave e dell’hardcore continuum britannico è evidente, ma i brani di Culver riducono l’energia di quel movimento a una serie di rantoli. Pigeon Flesh  è poco più di un metronomo ossessivo che gradualmente si evolve in un’ipotesi di techno, che però non esplode mai e rimane a torcersi su se stessa. Così i campioni vocali sospesi nel vuoto della bellissima Nervous Energy, i loop scassati di It’s Hard to Get to Know You e Create a Lifestyle Around Your Problems, l’ambient nerissima della title-track, e il silenzio che si infiltra di continuo nella musica, impossibile da ignorare.

Mark Fisher ha raccontato Burial come “Londra dopo il rave”: l’eco amaro e attutito di una stagione piena di energia che sembra persa per sempre. Qui siamo al grado zero di quel processo, e per grado zero intendo pure la temperatura: il sogno della stagione rave è diventato un inverno nucleare, i loop e le poesie di “I was born by the sea” sono quello che è rimasto dopo decenni di austerity. Come nei monologhi post-drill di Blackhaine (non a caso già collaboratore di Culver), nell’ambient metropolitana degli Space Afrika, o nelle esplorazioni notturne free-jazz-grime di Coby Sey: musica che sembra schiave delle macerie nelle quali è cresciuta, ma che comunque riesce a fare qualcosa di bellissimo con quelle macerie.

L’album di remix chiama in causa proprio alcune di queste persone: Rainy Miller, talento di Manchester e beatmaker di Blackhaine, veste Daytime TV di beat violenti e fratturati; gli Space Afrika fanno evaporare It’s Hard to Get to Know You. Tra le altre cose migliori anche Pigeon Flesh rifatta da MOBBS in un modo che fa cacare in mano ancora più dell’originale, e la gelida bonus track Dream About Yourself.

“I was born by the sea” esce per REIF e lo comprate qui. Invece l’album di remix lo comprate qui.