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Dollis Hill e’ una zona del North West London dentro la municipalità’ di Brent. A due passi da Portobello e Camden ed abbarbicata su una collina raccoglie in silenzio eco e riverberi musicali della City. Queste che seguono sono cartoline sonore (o trascrizioni di cassette?) di concerti fortuiti visti in venue che forse non saranno più’, e principalmente di band o artisti di cui (forse) non avete mai sentito parlare. Ma che fareste meglio ad ascoltare.

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Dollis Hill Tapes Vol.3 – Help The Witch

di:

E’ la sera del mio compleanno, qui nel non-mondo fatto di nebbie ripescate a forza da un passato sottile (in attesa del tanto decantato “freedom day” del riccioluto cazzaro che qui in Uk chiamano primo ministro di qualcosa). Abbiamo deciso di  festeggiarlo all’inferno, o perlomeno una rappresentazione alcolica abbastanza vicina a quello che Milton aveva in mente: The Magic Garden.

Si tratta di uno di quei pub in odor di festival (è questione di attitudine baby) tutto socialite, florilegio di decorazioni fuori stagione e lucine fuori contesto, all’interno perlomeno, dato che siamo sempre nella perfida e grigia Albione, mentre fuori l’allegria sprizza da fontane alternata a Pimm’s e Aperol Spritz a costi esorbitanti (entrambi). D’altronde il South West London, e Battersea in particolare, ha già’ dato in quanto a gentrificazione  abbondantemente anni fa. Vi basti sapere che ovviamente, nonostante la parvenza indipendente, la venue lo sarà nella scelta dei concerti e poco altro, perché tutto il resto è decisamente parte di una catena (di quelle che qui, sotto mentite spoglie, hanno praticamente comprato nove decimi di tutti i pub storici). Quindi si mangia, beve e respira la stessa aria che altrove. Ovunque. Punto e a capo. 

Perché siamo qui per altro, fortunatamente. Un triple bill (con Dj) di folk-music (stiamo festeggiando o no?) che promette balli e sudori d’altri tempi, perlomeno  sostiene l’entusiasta promoter sull’evento Fb di turno. Stavolta faccio lo sforzo di  segnarmi questi poveri derelitti uno per uno, mi pare che qualcuno cominci a darmi del pelandrone per non nominare tutti, ma per la cronaca e’ semplicemente disgusto. 

Il programma della serata, che per inciso è a cura di Old Bones Promotions (???) comprende Dj Pony (cv stellare, musica da scuole medie), Young Waters (ci tengono  a farci sapere che prima si chiamavano Sunfkin, io ci tengo a farvi sapere che erano una specie di lagna soporifera sia prima che dopo il cambio di moniker, una specie di  Mumford & Sons sotto Diazepam), The Langan Band (hanno cambiato medicine ai Mumford & Sons, sbagliando di brutto, probabilmente benzodiazepine, ma soprattutto il cantante crede di essere quello baffuto dei Gogol Bordello). Insomma un disastro bello e buono. E ora credo sia chiaro perché tendo a non trascrivere tutto proprio tutto eh? 

MA. Gli headliner della serata sono assolutamente serissimi. Già dal nome antipatici e quindi eroi. Stick in the Wheel è di base un duo: Nicola Kearey (vocalist) and Ian Carter (produttore e polistrumentista) originari dell’East-London. In realtà suona e funziona come un collettivo: stasera sul palco sono in 6, a seconda dell’occasione li trovi in duo, trio, quartetto, quintetto e via dicendo. Anche qui siamo dalle parti del folk, ma non c’è traccia di festa di paese, sagra, cinghiale, porchetta, idromele,  Asterix e Obelix. No, qui ci sono streghe e rune, minimum wage e precariato, antichi e nuovi disagi dell’Inghilterra tutta, mischiati in un continuum spazio temporale  ridefinito dalla musica stessa, che infatti si muove tranquillamente a suo agio con il folk più archetipico di pezzi come “Bows of London” (qui sotto dal vivo al Green Note, altra venue di cui un giorno forse parleremo), dove si possono letteralmente  vedere le tracce ruvide di una certa scuola di folk-singing ermetico e mistero. 

Per contraltare, i nostri sono capacissimi di sventrare le aspettative dell’audience con cose tipo “Gold So Red”, tra pedali ritmici alla Woven Hand e voci al vocoder da ultimi Low. Le facce del pubblico sono ovviamente tutto un programma.  

Atmosfere e velocità si diradano e fossilizzano ancora di più in pezzi come “Wishing  Well”, dove il paragone con i miei eroi di Duluth diventa importante, senza mai però essere plagio, ricercando una chiave altra. 

Infatti arriviamo dalle parti di droni e particelle di suono implose, micro sillabe narranti, universi in cui il folk è una scusa bella e buona, a meno che non stiamo parlando di Volk, a questo punto, come in questo mixtape feat. Lisa Knapp

Quando vogliono i nostri tornano agilmente alle coordinate di partenza, bouzouki in testa, hand-clapping e poche altre percussioni, violino e voci scheletrici, due voci pesantemente cockney a raccontare con forme tradizionalmente folk storie contemporanee, come nella struggente “Champion”. 

Insomma, un’altra esperienza frastornante, decisamente più per il resto del pubblico che per il sottoscritto. Io scopro anche che nel loro piccolo i ragazzi, che comunque  sono tutti meno che ragazzi, vengono da un’ambiente squisitamente working-class, sono oltre-che-quarantenni, hanno una fanzine auto prodotta e stampata benissimo,  sul loro bandcamp hanno fra varie cose lanciato anche l’idea di un moderno “English Folk Field Recordings” (in due pratici volumi) e che tutto è all’insegna del fiero DIY comprensivo di autoproduzione e autoproduzione. E fanculo il Music-Biz. 

Un buon equilibrio tra vecchio e nuovo lo trovate nella loro ultima release digitale su Spotify, “Hold Fast” del 2020, prova lunga e sfaccettata, disco da viaggio interiore e  in lungo e in largo per questa desolata terra di matti. 

Non mi rimane che dirvi dove ascoltare e comprare qualsiasi cosa vi piaccia di questi eroi usciti da un film di Ken Loach e rimandarvi al prossimo capitolo di questo pazzo mondo, speriamo fuori dalle nebbie, al prossimo giro.