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Edipo re al Teatro Astra

di:

Di Sofocle

Adattamento e regia di Andrea De Rosa

Traduzione di Fabrizio Sinisi

Con Francesca Cutolo, Francesca della Monica, Marco Foschi, Roberto Latini, Frederique Lolièe, Fabio Pasquini

Scene di Daniele Spanò

Luci di Pasquale Mari

Suono di G.U.P. Alcaro

Costumi (realizzati presso il laboratorio di sartoria del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa) di Graziella Pepe

Visto al Teatro Astra, il 9 marzo 2024

Dopo aver assistito alla rappresentazione dell’Edipo Re nella versione di Andrea de Rosa, ci si trova nelle viscere, un’ombra difficile da digerire, seppure deliziosa. Come un tiramisù mangiato con cieca ingordigia, quando hai avuto mal di pancia tutto il pomeriggio. Per il piacere di scaraventarsi addosso a qualcosa che sappiamo ci porta intimi dolori. Perché di una tragedia dolorosa, parliamo.

Le scene di Daniele Spanò, accolgono la forma di un dramma rituale in suggestioni ancestrali ed evocative, nella microfonazione e l’apparato illuminotecnico chiaroscurale, fedele agli orari in cui si svolgevano le Grandi Dionisiache, ai tempi in cui Sofocle presentò per la prima volta questo capolavoro immortale. Sulla scena sei lastre di vetro dietro cui si palesano i personaggi con le loro voci. Marco Foschi nei panni di Edipo, sempre al centro. Roberto Latini dietro o davanti a lui, a seconda della posizione di Edipo, nei panni di Tiresia.

Lo spettacolo si apre con il coro delle voci di Francesca la Monica e Francesca Cutolo , da cui spiccano le risonanze gutturali e gli screaming, che sembrano riportare alla natura sacrificale e catartica della tragedia. Già dall’inizio si avverte l’importanza data alla sfera vocale. Reminiscenze di canti dove ad essere amplificati non sono solo il volume e l’intensità, ma anche la scena interiore; la tragedia si ascolta, prima di tutto.

La ricerca che in occidente è stata svolta sulla tragedia, sovente ha ruotato attorno alla prosa e il melodramma. In questo caso si fa un’operazione di grande intelligenza e cultura, che consiste nell’accogliere appieno gli apparati del presente, al servizio di un passato mitico da far emergere, e non una rinnovata maniera. È l’aspetto ancestrale di questa rappresentazione a renderla unica e importante. Tra le ombre dei volti che appaiono da dietro le lastre di vetro, inizia il coro che è a sua volta la segmentazione della monodia che apre la tragedia, dove la sacerdotessa parla usando la prima persona plurale, in una accorata cronaca. Infatti c’è in quelle voci, il risuonare contro vetri estremi, in un limite imposto dagli dei, rappresentato dall’epidemia. Corpi, dunque, confinati e quindi codificati.

In quest’opera si parla di una colpa di cui il protagonista ha responsabilità in forma non diretta. Un’azione di cui lui non sa nulla, che lo incatena ai significati obliqui di Apollo. Come se fuori dalla civiltà possa trovare solo la prigione o appunto l’esilio, intesi come riduzione in scala di quelle pareti iconografiche in cui si forma la sua identità. Va specificato che quando Sofocle scrisse quest’opera, Atene era un luogo in cui la giurisdizione non responsabilizzava gli accusati di eventi di cui essi non fossero consapevoli, come viene invece narrato in questa storia. Si parla, nell’Edipo re, di un tempo lontano. Così è proprio per questo che Andrea de Rosa ci ha fornito una versione onesta e esatta della tragedia.

Moderni erano anche questi antichi narratori, quando guardavano a un tempo trascorso ancora mitico, magico. Noi contemporanei, ci collochiamo nella comunità millenaria della storia, nello stesso luogo di quella modernità ateniese del tempo, e così troviamo la vicinanza inconfessabile con lo spazio mitico, che precede anche noi. L’uomo che Edipo indovina, vincendo la Sfinge, è la sua condanna. Questo Edipo è la forma platonica di un uomo legato alle catene di un potere che lo pone in un punto d’intersezione tra l’inconscio, rappresentato dalla voce di Tiresia e la corale supercoscienza che viene emanata dal suo popolo. Mentre Edipo dice il famoso monologo in cui dichiara che l’assassino di Laio dovrà essere catturato e esiliato, Tiresia, come una voce interiore, gli suggerisce “Sei tu”. Chiuso tra due abbagli, uno di luce accecante e un altro di ombra. Bisogna effettivamente pensarla così, in senso scenografico, nella geometria coreutica dello spazio scenico.

Edipo viene mostrato incapace di ascoltare, ma bramoso di vedere, alla ricerca di quella luce che possa accecarlo. La coincidenza tra buio e luce. Le severe disposizioni che chiede al suo popolo contro il presunto assassino di Laio, sono rivolte verso sé stesso, così la narrazione si regge interamente sulla resistenza cui la sua stessa figura sociale, mediata dagli altri che lo circondano, lo conduce. La figura di Giocasta, interpretata da Frederique Lolièe è fondamentale in questo processo. Come quando lei, con il suo splendido accento straniero, gli dichiara una verità che lo riguarda, e immediatamente inizia a ridere. Quell’attimo ricorda il Motto di Spirito di cui ci parlava Freud, consistente nella risata che segue l’emergere di fatti inconsci. Quando lui le chiede rivelazioni, lei, sua madre, gli dice no. Quel no diventa reiterato, in una rimozione ossessiva, dove l’unica difesa diventa il riepilogarsi del non capire. E così anche le loro azioni sono visibilmente guidate da questo processo psichico. Lo stesso no, che qui è un divieto materno inconscio, si manifesterà più avanti quando lo sgriderà, finalmente parlandogli, dunque.

Nell’Edipo re di Andrea de Rosa, vi è una messa a nudo della debolezza di un sovrano, all’interno di una narrazione che fluisce come in un ritmo monotono, che diffonde uno stato di trance nelle cavee del teatro Astra. Il titolo originale Οἰδίπoυς τύραννoς , quindi l’Edipo Tiranno, è stato giustamente tradotto Edipo re, secondo la tradizione italiana, da Fabrizio Sinisi. Ma in quel titolo originario ci sta un significato che può offrire chiavi interessanti. Creonte, impersonato da Fabio Pasquini dice a un certo punto a Edipo “io non voglio diventare tiranno come te”. Eppure Edipo risulta essere un buon Basileus, piuttosto che un despota. Il popolo lo ama per come ha gestito la pandemia (seppure assenti all’appello le “bimbe di Edipo”). La tirannide, però, risiede in quella colpa che Edipo vuole afferrare, e il paradosso sta nel fatto che questo suo desiderio di verità, frenato da Tiresia, il quale non vuole inizialmente che lui acceda a un tale sapere, lo porta oltre il limite entro cui lui può continuare a esistere come sovrano. Sono proprio le lastre di vetro a simboleggiare questa codificazione, il limite imposto al corpo. La chiusura, la quarantena, il recinto simbolico entro cui può essere colta un’identità.

Oltre quel limite si accede all’indecifrabile, in quell’inconscio che nella tragedia greca rappresenta una colpa di cui non si è direttamente responsabili. La tirannide sta proprio nella verità dell’atto di uccisione di suo padre, nei suoi piedi gonfi, nel suo stesso nome Edipo. È quella lettera rubata raccontata da Edgar Allan Poe e ripresa da Lacan in un suo scritto.

Infatti credo molti, quando sentono parlare di Edipo, ripensino immediatamente al famoso complesso di cui parlava Freud. Ma lo psicanalista, a sua volta, pensava proprio all’Edipo di Sofocle. Non facciamoci ingannare, Tiresia non è uno psicanalista ante-litteram. Lui non vuole che Edipo sappia. Tiresia è associabile a un semplice psicoterapeuta di quelli junghiani che non vogliono aprire troppe porte, e sigillano il processo conoscitivo nella vaghezza delle immagini, e non lasciano spazio al discorso per andare verso matematiche rivelazioni. La volontà soggettiva di Edipo spinge, e come una pentola a pressione esplode. Così quando inizia a capire di essere l’assassino di suo padre e il marito di sua madre, il suo pensiero non resiste e inizia a fantasticare di congiure dove implicato vi è Creonte, fratello di Giocasta il quale vorrebbe prendere il suo posto. Questo viene narrato molto bene nella versione di Andrea de Rosa, perché emergono bene i passaggi psichici del protagonista. Diventa quasi visibile quel muro sottile tra la nevrosi e la psicosi, che Edipo mostra, nel suo agire in concatenazioni di difese della psiche. Ed ecco che lì torna la centralità di questo muro iconografico di cui è composta la scena. Edipo fantastica di un’ altra persona che voglia superare la forza che lui ha rubato, inconsciamente, a suo padre. Sposta la colpa per liberarsi dall’angoscia. Ma quest’angoscia è troppo forte, perché lo tocca nel suo valore, struttura del suo Io. L’importanza di quest’opera sta proprio in questo elemento. I tabù dell’incesto e il parricidio, sono due elementi che già all’epoca erano universali. Come tali non ci si può sottrarre a questa colpa. Per questo Edipo, che potrebbe rimuovere, dimenticare, non considerare, invece si accanisce per sapere. Si piomba fino a giungere alla consapevolezza di questo. Per riafferrare sé stesso. E una volta che ha sé stesso fra le mani, si acceca. Sua madre si impicca, lui si toglie la possibilità di vedere il mondo. Ogni visione diventa in effetti impossibile, non si da più l’Io, in questo sta la profondità etica di questa storia. Ed ecco che torniamo a quell’ombra da cui siamo partiti, difficile da digerire. La stessa ombra di Sofocle, raccontata in affabulazioni lontane, riapparsa in questa meravigliosa rappresentazione di Andrea de Rosa, incredibile e sorprendente.