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Stupendo obbedire

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Il Teatro Vascello lascia spazio dentro la scena a un’opera rivoluzionaria, una di quelle che spara letteralmente in faccia al suo pubblico e lo colpisce ferocemente con un diversivo ingegnoso, costruito mediante urti ripetuti e assestamenti continui. E’ La Sparanoia.

Sul palco ci sono due terroristi: sbranati dal masochismo, dentro i loro trent’anni, piegati e storditi da un frenetico tripudio orgiastico con i loro sensi di colpa mentre trascinano gli spettatori dentro quel che siamo o stiamo diventando.

Niccolò Fettarappa e Lorenzo Guerrieri, affetti da depressione Marxista, scovano e mostrano sul palco l’inconsistenza più profonda del male del secolo: la paranoia del sé.
Producono arte critica, sparano con una forza irrefrenabile contro ogni difesa.
Lo sento dentro il contraccolpo: la mia capacità di opporre resistenza è annientata.

Forma e contenuti scavano dentro, la risata è un vero tormento, a ogni battuta comica corrisponde la scoperta di un vizio malato che, come un germe, contamina la società contemporanea. Diverse incavature si aprono dentro il terreno del pensiero. Non c’è aria. Oggetti di scena, personaggi, scelte stilistiche, tutto è stato accuratamente studiato per ottenere un effetto claustrofobico.
E’ la comicità, in questo spettacolo, a fare più male. Il suo ruolo è mascherare la crudezza del racconto per lasciarla entrare lentamente, mentre spietata avvelena l’individualismo di ognuno di noi.

Mi vedo, ci vediamo, noi spettatori dentro quella trappola mentale che non lascia la libertà di scappare da una dura e critica analisi dell’egoismo sociale.

Ci siamo, siamo caduti, abbiamo abbassato le difese.

Protagonisti anche i media. Costantemente!
Dettano l’agenda dei pensieri concessi, le forme delle idee, confinano le reazioni sedate.

Niccolò sembra resistere, lui vuole la piazza, poi la perversione entra in scena e si trasforma in autocensura psicologica. E’ il brigadiere. Alter ego di Niccolò, interpretato da Lorenzo. Fa paura, questa maschera.

E’ l’autocastrazione personificata che a un certo punto, verso la fine dello spettacolo, acchiappa Niccolò, lo trascina, lo spoglia e lo sculaccia letteralmente, eroticamente.

In scena è onnipresente la ripetizione ossessiva del concetto di metro quadro perché proprio lì si chiude il protagonista, muovendosi su una mattonella in cui si svolge gran parte dell’azione. Non c’è più la piazza, c’è la casa.
Un confine netto fra sé e gli altri, una linea di demarcazione non più invisibile.

Orgoglioso di essere riuscito a conquistare quel pezzo di prigionia, Niccolò vive dentro una fiera detenzione, con la sua incapacità di reagire al condizionamento mediatico, tecnologico e istituzionale. Pulisce ossessivamente il bagno. Mostra all’amico quel piccolo pezzo conquistato con il sudore e il duro lavoro…

La rivoluzione? Meglio farla dentro un garage con i “succhetti”. Perché è bello obbedire!
Poi c’è l’ennesima botta cerebrale.

Scendono dal palco, urlano sulle nostre facce da confinati, invadono il nostro spazio temporale, arrivano alle poltrone, toccano il nostro metro quadro privato. Hanno i mitra in mano. Corrono, urlano.
Esplodono come bombe disumanizzate. Molestano e maltrattano il pubblico. Lanciano esplosivi: parole.
Ci sparano addosso, acqua.
Farneticano qualcosa, urlano stronza alla signora in prima fila, poi a un’altra…

Fine.


Quanto mi sarebbe piaciuto, uscire dal teatro, partire a razzo con una fuga dissociativa. Invece no! Per mandare giù la verità devi trovare il modo per “aggiustarla”. E’ fondamentale parlare con chi la sa guarda bene dentro gli occhi, la società. Senza distrarsi!

Ho trovato il mio personale diversivo: sentire la voce dell’autore, per non cadere nel malessere generale.

Ho contattato Niccolò il giorno dopo. Abbiamo chiacchierato a lungo,
sulla linea fissa, come una volta, perché il segnale non è riuscito a superare il confine. A proposito!
Quanto mi piace questa condizione anacronistica.

Punto primo: la mia coscienza ha fame. Lo lascio parlare per più di un’ora.
Niccolò Fettarappa, non è un’illusione ipnagogica, siamo entrambi fin troppo svegli e vigili.

Durante l’intervista la sua dialettica disegna, mostra idee critiche e riconosce un dramma sociale basato sull’esclusione dei non privilegiati e sul culto del proprio sé. Attacca lo stato delle cose attraverso il teatro…
La casa, per Niccolò, è il contraccettivo del cambiamento, è lì che la gente diventa idiota. Dentro quello spazio temporale siamo chiusi come atomi individualizzati, sempre più lontani dagli altri.
La casa, è un luogo di “disciplinamento”, dove certi rituali paranoici si esplicitano in modo nevrotico: come le ore dedicate alla skincare, alla cura del corpo, all’igiene personale. Tutelare il proprio sé ad ogni costo, non sporcarsi, è questo il fine.
E’ il culto del sé che tiene fuori il collettivo.
Colpa di una politica paranoica.
La capacità di criticare il mondo è stata sostituita dall’interpretazione, come nei social network. Siamo tornati ad osservare il mondo senza cambiarlo, questa è la funzione dei post su Facebook, ad esempio. Interpretiamo il mondo senza far nulla per trasformarlo e diventiamo escrementi con vocazione critica del sistema.

Allora chiedo quale soluzione azione mettere in atto: disiscriversi, risponde.

La lezione, con la mia interpretazione: sparire dalla realtà virtuale per ritornare ad esistere dentro il mondo reale.

[L’immagine in copertina è di Laura Farneti]