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Still Alive di Caterina Marino, all’Off topic

di:

drammaturgia e regia Caterina Marino
con Caterina MarinoLorenzo Bruno
aiuto regia Marco Fasciana
video creator Lorenzo Bruno
sound designer Luca Gaudenzi

Visto il 19 marzo all’Off Topic di Torino.

L’Off topic ospita la rassegna Fertili terreni, gestita dalle tre consolidate realtà teatrali torinesi A.M.A. Factory, Cubo Teatro e Tedacà. In questo caso Girolamo Lucania e il suo entourage di Cubo Teatro, propongono uno spettacolo di Caterina Marino, intitolato Still Alive.

Quella che ci viene raccontata, dalla generosa attrice e autrice, è una storia di depressione. Non è un resoconto clinico su come si svolge la malattia, ma un racconto personale. La narrazione non spiega i fatti in senso lineare, ma si articola in scene episodiche, slegate le une dalle altre, come in uno zapping, proprio come accade nella vita, nell’abulia del quotidiano che pervade appunto lo stato d’animo depressivo. Questo conferisce allo spettacolo il potere di far ritrovare in ciascuno spettatore elementi di identificazione. La depressione è una possibilità vicina a molti, al giorno d’oggi, e questo viene infatti esplicitamente detto nello spettacolo. Si fa riferimento alle grandi difficoltà di questi contemporanei anni venti, all’impossibilità di vedere un futuro, e lo si fa a partire dal soggetto narrante in scena.

Si sentono ogni tanto, dalle casse, le risonanze di voci registrate di persone che sono state intervistate, in un lavoro pregresso di indagine; esperienze che fanno da “coro”, come fossero riverberi del suo stesso habitat.

Così Caterina gioca sul palco tra l’ambigua figura impersonata da Lorenzo Bruno, che la modella e muove, ad indicare la sua totale passività, e il pubblico. Come se si trovasse effettivamente in camera propria, giaciglio e alcova dove ogni tanto si intravede la fine del dolore che però rimbalza su sé stesso. Sembra di vedere questo, nel flusso narrativo che scioglie il soggetto. Così viene narrato un continuo spostamento di argomento, un continuo cambio di scena, registro. Si gioca.

Un microfono e una coperta in una partitura scenica fatta di momenti coreografici e monologhi, dove ci si muove nella narrazione di una quotidianità che sbatte continuamente contro quelle aporie che consistono, ad esempio, nell’ordinare un pasto da casa. Sempre più diventa frequente, sentire raccontare storie a proposito di eventi strambi che pensavamo essere solo nostri. Dona, questo spettacolo, il sapere di non essere soli, ma al contempo la certezza di essere unici.

Fino ad arrivare a un cuore del discorso: la volontà di perfezione che alimenta il vuoto. Quel particolare malessere che consiste in uno spegnimento etico, nel profondo della colpa e della consapevolezza che si è fatta fondo, fino a bruciare ogni emozione. Vivere quindi in una realtà, come quella che Caterina ci narra, costantemente appoggiata in stimoli che diventano momenti, e che poi si spengono perché restano nell’apatia. “Non nell’afasia”, ci specifica Caterina, “perché sennò non starei qua a rompervi le palle”.

Uno splendido lavoro vocale anche, quello di Caterina, in un continuo alternare la finzione alla realtà, nell’ happening di una comicità terapeutica ma intelligente. È uno spettacolo che è una pratica di uscita fuori dall’ambito clinico, per questo dico “ma” intelligente. Perché tanto piena è la sfera di quelle terapie consistenti in teatri infantilizzanti e canzoncine di Natale fatte cantare a disperati talenti che dormono nelle case della psichiatria. Ma il caso non è questo. È una giovane donna che parla apertamente di una questione che riguarda la propria vita nella sua più intima bellezza. È una condivisione di qualcosa che molti vivono, in piccole dosi. Ciascuno pronto a cercare una diagnosi per avere un senso. Ma qui invece approfondito, nell’essenza della propria quotidianità, mostrata come occasione di fare della vita il proprio teatro e viceversa.

Così questo spettacolo ha di profondo, che un senso non vuole cercarlo e viaggia nel suo abbandono, nella narrazione di una coercizione epocale, vuota e senza futuro. Dove lo stato d’animo diventa l’adattamento a questo nulla fatto di omologazione, e la colpa di vivere senza averne la forza, diventa una realtà tangibile. Nel desiderio di scomparire e nella grande coscienza dell’inutilità di esistere. Così subentra Pavese che viene spesso menzionato. In particolare quello de Il mestiere di vivere , nella fase più intima della sua scrittura, lui che ha fatto della sua lettera d’addio, il suo ultimo componimento, ad oggi assai citato a discapito di quanto chiedeva nel contenuto. Affascinante questo paradosso, e la contraddittorietà dello scrittore. Forse voleva che quanto gli stesse accadendo fosse saputo, come un piacere proibito. Così ecco che il messaggio nella bottiglia è arrivato a Caterina, che decide di farci questo dono di “pettegolezzi” .

E poi ecco subentrare Sylvia Plath. La storia di come è morta. Il suo aver messo la testa nel forno, ma al contempo aver lasciato un biglietto di aiuto sperando che la cameriera potesse leggerlo, all’ingresso della porta. L’ultimo momento dolorosissimo di una immensa poetessa, che quando diceva di essere verticale ma voler essere orizzontale, non lo desiderava davvero. Cercava solo qualcuno con cui condividere il proprio dolore, trasformandolo in vita. Quello di Sylvia Plath fu per questo un incidente.

Sotto i riflettori, la depressione si calma. Succedeva anche a Vittorio Gassman, che notoriamente non si alzava da un letto, ma se doveva andare in scena immediatamente guariva, per poi tornare a sprofondare. Il teatro è un mondo che è fondamentale per questo grande vuoto che chiamano malattia, depressione A, depressione B e via dicendo. Il teatro accoglie in sé, la mancanza. Nel teatro possiamo sentire, e grazie a ciò diventiamo unici. Caterina riesce a trasmettere questa unicità.

Personalmente non sono un grande amante del filosofo Galimberti, e la comparsa del suo viso, a un certo punto proiettato, ha abbassato un po’ la magia, riportando un senso troppo luccicante, in una presa di posizione che ho preferito quando diretta verso altre sfumature.

Ad ogni modo ho trovato profondo questo lavoro, al di là del mio gusto personale relativo alla figura di Galimberti che, insiste prepotente (il mio gusto), inserisce troppa morale e sazia un bisogno di senso che andrebbe nutrito invece un chicco alla volta. Davvero la cosa più importante però è quel che fa Caterina. Portare un grande dolore come quello della depressione, che lei elenca nelle sue varie sottocategorie, come astenia, male di vivere, etc e drammatizzarlo, portarlo nella comunità, renderlo ascoltabile, curarsi.

Perché la depressione oltre ad essere un costante spegnimento, è una direzione che trascina, una culla crudele, e dovremmo darle forse lo spazio di dirci qualcosa che non capiamo, ogni tanto. Sono tante le cose che dobbiamo ricordare, proprio perché dobbiamo capirle domani. Così come avviene sul palco, in questo spettacolo, sicuramente longevo dell’ancora viva attrice e autrice Caterina Marino.