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How it feels to be free

di:

Artwork di Alessandro La Cognata.

Il concetto di libertà fa parte di quelli che si capiscono non appena la si è persa, o non la si è mai avuta. Ma cosa si prova ad essere liberi? Non voglio certo fare retorica, ma capire davvero.

Novant’anni fa questa domanda se la devono essere posti molti in Italia, quando leggi razziali e tutta un’altra serie di idiozie del genere sono state “casa nostra” per un buon ventennio. Poi finalmente la conquista della libertà, del saper cosa fare del proprio nome e della propria vita.

Ma se ci guardiamo intorno oggi, a quanti altri questa stessa libertà viene negata?

Solo nel ’64 in America la segregazione e discriminazione razziale è cessata, praticamente l’altro ieri, dopo secoli di lotte e morti e abomini, ma ancora oggi gli afroamericani hanno bisogno di gridare black lives matter.

Viene da pensare che la storia non insegna nulla o forse insegna troppo bene come fare a negarla, la libertà dico. Alle donne di quanti paesi è vietato parlare, avere un’opinione, vestirsi come gli pare, correre per strada, studiare, lavorare, esistere? Ho cercato di fare un conto e mi sono persa, sono troppi. Troppi davvero.

Eppure, in tutti questi posti esistono degli avamposti di resistenza: coraggiose e coraggiosi di ogni età che combattono per cambiare il sistema e migliorare la propria vita, una cosa insista nell’uomo; quando invece si getta la spugna è la fine della vita.

E allora vediamo gente scendere in strada e protestare, a volte senza neanche armi di difesa, con solo i propri “capelli” come arma; altre volte invece è l’arte a parlare, a dirci che in quei paesi il malessere è profondo. E quindi, deve l’arte battersi per la libertà?

A me piace pensare che il suo aiuto sia fondamentale: pensiamo al Guernica di Picasso, che fece conoscere il conflitto fratricida spagnolo in tutto il mondo e che lo stesso Picasso rifiutò di esporre in Spagna a meno che la guerra non fosse finita. O di tutti quei musicisti che si riuniscono per raccogliere fondi contro guerre, per la cura di malattie o contro l’odio. L’arte non è e non deve essere fine a se stessa, il suo scopo non è solo intrattenere (anche se molti artisti lo fanno), difatti quale canzone ti rimane nel cuore? Quale quadro ti entra nelle viscere? Solo quello che ti tocca nel profondo e che manda un messaggio dritto alle tue sinapsi.

Ricordo perfettamente la prima volta che vidi uno dei Catedral De Rouen di Monet, ne rimasi folgorata. Pensate che questo pittore ne dipinse ben 48 versioni diverse per riuscire a catturarne ogni sua piccola sfumatura, esattamente come in una serie di click fotografici; io ne vidi una versione con la nebbia, e più stavo lì ferma a guardare il quadro e più sentivo quell’aria pesante posarsi sul mio viso, fin quando l’aria cominciò a mancarmi. Si chiama sindrome di Stendhal, dal nome della sua prima vittima, e io ho avuto il (dis)piacere di provarla e vi dirò, che dopo essersi ripresi ci si sente privilegiati.

Hegel diceva che il fine dell’arte debba essere “rivelare la verità sotto forma di configurazione artistica sensibile”, per Schopenhauer la contemplazione della conoscenza in maniera disinteressata degli aspetti della realtà. Filosofi a parte, libertà non è solo una bella parola da usare nelle canzoni, ne converrete, c’è chi è morto in suo nome e chi muore ancora oggi.

Quindi l’arte assolve al suo scopo solo quando ti entra nelle viscere e fa di tutto per uscire fuori e risplendere, ovviamente è solo una mia opinione che vale quel che vale, ma personalmente se posso scegliere voglio vivere di cose che hanno un senso, vivere di emozioni che ti schiaffeggiano, vivere di musica che ti sconvolge, vivere insieme a gente che ho voglia di ascoltare, vivere e non sopravvivere. In libertà.