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“Il pastello mi ha capita”. L’arte come mezzo per conoscere e conoscersi. Intervista a Clara Tacinelli per Tracce di Luce

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Seconda intervista di Enrica Orlando/Rubricosa alla pittrice Clara Tacinelli, artista in residenza per Tracce di Luce.

I pastelli di Clara Tacinelli a Castelnuovo al Volturno

Clara Tacinelli: “Il pastello mi ha capita”. Intervista per Tracce di Luce

Ho scoperto il pastello un anno e mezzo fa.

Non avevo mai fatto pittura en plein air, perché il mio vissuto…

Di dove sei?

Io sono di Benevento, ho studiato pittura a Venezia, però sono laureata in biotecnologie. 

Ah wow.. aspetta, ti devo interrompere, perché questa cosa già è affascinante. Sono due mondi apparentemente molto lontani… 

Guarda, se avessi saputo subito che potevo collegare tutta la chimica che ho studiato al colore, probabilmente avrei approcciato agli studi scientifici con una testa diversa. Per memorizzare chimica ci ho messo tanto. Sai, io non accettavo la mia laurea in biotecnologie. Ho avuto tante problematiche

Ti posso chiedere perché hai scelto quel percorso?

Perché al quarto liceo mi ero fissata con la medicina. Medicina, medicina, volevo fare medicina. E così ho fatto i test di ingresso, tutti. Non sono passata, così ho fatto il primo anno di biotecnologie. Il secondo anno ho riprovato il test di medicina, ma già non ero più convinta. Infatti non sono entrata. A quel punto mi sono detta: che saranno due anni di biotecnologie… E invece è stata dura. Alla fine mi sono laureata, ma non ricordo quasi nulla di quel periodo. La mia tesi la ricordava mia mamma, io non la ricordavo proprio. 

Eri talmente stressata che…

Perché non mi importava più. Sono andata avanti a forza di volontà. Per gli ultimi quattro, cinque esami non avevo più volontà. Ero sfinita.

La passione per l’arte c’era già?

Sì, da sempre

Mi torna molto con il discorso della dualità di cui parlavi per la presentazione dei lavori che hai creato qui, a Castelnuovo.

Mi ci ha fatto pensare Nicole (settore comunicazione, CISAV) a questa dualità. Non l’avevo mai considerata in questo senso, correlata ai miei quadri.

Mi racconti il tuo rapporto con la chimica e l’arte?

In Accademia, quando mi sono iscritta dopo la laurea in biotecnologie, mi aspettavo che qualche docente mi guidasse. Invece l’accademia è un campo, ti buttano dentro e devi imparare, devi stare dietro ai docenti e apprendere.
Io avevo il cervello forzato in una strada stretta, fatta di certi libri, certi paragrafi e invece mi sono trovata un “piazza”. Mi sono detta “e qui adesso che devo fare?'”

In quel sistema quello che ti serve te lo devi prendere, devi cercarlo però devi essere sicura, se non lo sei e arrivi lì …

È interessante, anche Moulin è uscito da un sistema “chiuso”, accademico 

Tu in che momento hai trovato il tuo centro? 

L’unica materia che seguivo il primo anno era cromatologia. Perché poi lavoravo, giravo per Venezia… Venezia è bellissima, è bellissimo viverci, però io dico sempre che ci si dovrebbe andare quando non devi lavorare, non devi fare niente, con tranquillità. Perché ha le sue regole, devi camminare tanto…

Torna il rapporto tra arte e regole in cui sembravi incastrata?

Tutto quello che facevo sembrava non andare bene. Allora ho scelto di imparare la parte tecnica, “scientifica”.  Anche per quanto riguarda la creazione del materiale, per esempio il pastello: io i pastelli li creo da sola.

Bisogna conoscere il mezzo che usi. Anche Moulin realizzava i pastelli da sé. 

Sì. Era un conoscitore della natura, delle piante. Si è adattato al luogo, applicando anche il lato scientifico delle sue conoscenze.

Un pittore deve avere presente la parte scientifica, se non conosci bene la materia che stai sfruttando, quello strumento non lo userai bene.

Volendo è anche un discorso che può riguardare lo stesso artista: se non sai come utlizzarti… 

Sì. Infatti io così ho capito che la laurea in biotecnologie mi è servita.

Facendo un percorso che sembrava opposto… fantastico.

Ok, adesso sappiamo della tua parte tecnico-scientifica. Quella emozionale? 

È qui che viene fuori la questione duale. Clara Tacinelli è poco social. Se sto dipingendo mi assento, non riesco a fare il video da postare o altro, non riesco a pensarci, sono nel mio mondo. Sui social infatti sono Klara Tach, il mio soprannome sin dai tempi della scuola. Ma i quadri non riesco a firmarli come Klara, ma come Clara.

Poco fa con Dada ho parlato proprio di multidentità.

Che tutti abbiamo…

E la Angelina (la donna ritratta da Dada n.d.a) che dà il pugno all’immagine di se stessa, ne è esempio perfetto.

Ah sì, è stata una scena bellissima. Chissà, magari non si riconosce o non le piace quell’immagine..


Però c’è, tutti l’hanno riconosciuta. Magari Angelina non si sente come la vedono tutti.

O ci si sente e non le piace, perché ci è diventata. Magari ha lanciato questo pugno, come a dire “la distruggo questa, perché non esiste”.

Queste multidentità io le rivedo nei pezzi di legno del pallet su cui è ritratta. Non è uniforme. E quello che mi affascina di Moulin è che, oltre ad aver saputo trovare il suo centro, aveva espresso altre identità.

Infatti. I suoi paesaggi, ad esempio. Lui che sembrava burbero… 

Magari lo era pure

Certo, ma i suoi paesaggi sono delicatissimi.

E i paesaggi delle tue opere create per Tracce di Luce?

Una signora mi ha detto: “Io ci vedo un dentro e un fuori. Se mi avvicino, vedo tutto il caos della vita -paura, ansia, gioia- e poi c’è sempre una stradina che ti porta in fondo, una stradina che si disperde in questa luce che è tra azzurro, bianco, giallo… ed è la serenità”.

Pastello di Clara Tacinelli, senza nome

Da vicino quasi non capisci: si percepiscono soprattutto  linee e colori. Da vicino è chiaro un movimento quasi circolare. Da lontano il caos prende una forma chiara e vedi il paesaggio nelle sue forme. Io ci vedo una attualità nel caos che hai creato

Quel caos sono io 

Eh, forse siamo noi, i Millennial. C’è tanto del modo in cui comunichiamo. Siamo una generazione di mezzo, 

Siamo un ponte.

Un ponte che si è creato in pochissimo tempo tra un prima analogico e un dopo. La gen Z ci è cresciuta dentro, questo “dopo”. Noi ci portiamo dietro anche il prima, la confusione è il minimo che ci si potrebbe aspettare da noi… è difficile anche definirsi.

Ad esempio a me non piace dare nomi ai quadri, influenzerebbe chi guarda, e invece l’osservazione dipende anche dallo stato emozionale. Ieri, durante il trekking verso Monte Marrone, ho detto a Agnese (Forlani, performer tra gli artisti in residenza n.d.a.), socchiudi gli occhi e dimmi quanti colori vedi…

Si può dire anche quanti colori “senti”?

Sì, come per la musica: la percezione è legata a uno stato emotivo.

Spesso, prima di iniziare a dipingere, sto tanto tempo a cercare la musica che mi piace, giro giro, finché non la trovo. Poi c’è un momento in cui la musica non la sento più. Qui (a Castelnuovo n.d.a.) non è servito. 


C’erano già tanti input dal posto stesso…

Dipingere così, all’aperto, in un posto nuovo, dove non conosci nessuno, non hai i tuoi spazi, tutti i tuoi colori, non hai il tuo tavolino… è stata una bella sfida. Qui ho usato il rumore del vento, che poi è un suono. Molto spesso mi è capitato di dipingere al mare, per immergermi nel suono delle onde. Anche su Monte Marrone, quel vento…

Volevo vedere quello che lui (Moulin n.d.a.) vedeva. Sono andata in giro con le persone del posto, facevo foto per memorizzare. Poi ho trovato il posto, dentro il paese: il belvedere.

Mi sembra che tutti i tuoi dualismi e contrasti si risolvano nella ricerca continua.

Sei sempre alla ricerca: il percorso di studi giusto, la musica giusta, il posto giusto, il colore giusto…

Sì. E poi per immergermi devo isolarmi. Qui mi è servito il contatto con le persone

ma poi ho dovuto anche isolarmi.

Come Moulin, il suo rifugio era sulla montagna, poi scendeva a valle.

Io ho scoperto tante cose stando qui. Il posto mi ha saputo leggere.

Perché tu hai saputo connetterti. È necessario, per smettere di “non esistere”, un tema centrale nella storia di Moulin e del Molise.

Mi è dispiaciuto non averlo trovato nei libri di storia, come se non esistesse.

Certe volte mi dico che forse “esiste” perché “non è esistito”.

Si è voluto preservare…  Il troppo distrae, allora tu diventi… Lui ha voluto fare quello che sentiva e basta.

E tu, come vivi la tua condizione di artista donna?

Artista donna e over trenta, aggiungo. A questa età pare tu debba essere già “arrivata”, devi rimanere incinta, sistemarti. Mi ha raccontato Kristina (Alpatova, artista in residenza n.d.a.) che la sua insegnante le ha detto “O fai l’artista o fai la mamma…”  Lei è entrambe, invece. 

È diventata mamma da poco ed è venuta qui. È chiaro che devi avere il supporto giusto accanto.

Sì, ho notato già prima di conoscerla, che è stata molto supportata da Gianluca (compagno di Kristina), nel gestire la situazione con la figlia.

E quindi il vantaggio e lo svantaggio di essere donna artista e Millennial?

Io ho sempre vissuto più il problema legato all’età. Ma è chiaro che esiste anche una problematica legata all’essere donna, come vieni vista: vieni notata perché sei donna, non per quello che fai.

Anche per il tipo di donna che sei

Sì.

Per non parlare dei cliché legati all’idea che l’arte prodotta dalle donne debba essere delicata. Dada invece mi ha raccontato della sua “violenza” nell’uso dei colori. 

Anche io sono molto diretta, con l’uso dei colori.

È per questo che il pastello mi ha capita.