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le vampe

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San Giuseppe, domenica, marzo 2023, Palermo. Sono alla Cala, sto andando verso il parcheggio strategico appena fuori dalla zona Z.T.L. Devo prendere la macchina per rientrare a Catania in serata, lunedì lavoro. Sbuchiamo dal vicolo ed eccola, finalmente vedo la vampa. Me ne avevano solo parlato e avevo visto delle foto e dei video. Intorno alla pira altissima di mobili rotti ante e molta altra roba in legno che arde ci sono decine e decine di bambini, molti a torso nudo e con grandi pietre in mano. I genitori stanno dietro le finestre, seminascosti dalle ante. C’è un cassonetto in mezzo alla strada, un furgone “degli sbirri” e pietre che volano ma al nostro passaggio no. C’è una macchina con i finestrini sfondati e penso di trovare la nostra con lo stesso trattamento, ma non è così. Bambini ovunque, sopra il muretto e per tutto lo spazio. Mentre cerchiamo di salire in auto sento una voce in quella moltitudine che grida “professoressa!”. Non mi giro, non penso subito che sia indirizzato a me. Poi sento “catanese!!”. Mi giro e vedo F. fiero sul muretto con i suoi compagni. Sono corsa verso di lui e gli ho teso la mano dal basso per salutarlo, ci siamo dati il pugno e io ho preso la A19 emozionatissima. E’ la prima volta che entro in una scuola da adulta e stando lì dentro sono ancora impacciata con il mio essere adulta. Spesso mi rendo conto che non so mettere le necessarie distanze perché la mia bambina è con loro e li capisce intimamente. Il fatto che lui in un simile contesto mi abbia cercato e salutato mi ha riempita di orgoglio e felicità. Non sono la prof. sfigata da ignorare nel momento di gloria esterno e contrastante con l’ambiente scolastico. Sono io e sono una persona degna di stima secondo le sue regole e il suo gusto. La scuola dove pratico il mio tirocinio ha un contesto socio economico difficile, secondo i protocolli civili. Dentro le sue mura accadono innumerevoli cose che non potrei finire mai di scrivere. L’istituzione ha il compito di scoraggiare comportamenti non leciti e potenzialmente illegali, ma quello che accade con i minori è davvero complesso da “gestire”. Io li guardo e so che sono appena dentro una linea ancora per pochissimo, oltre la quale diventeranno buoni o cattivi. O qualcosa di più ambiguo e complicato che non è mai tenuto in considerazione dalle regole della vita, ma spesso sta lì tutto. In quell’ambiguità che non può mai stabilire se una persona sia buona o cattiva. Qualche giorno dopo torno in classe e chiedo a un altro degli alunni cos’abbia fatto per San Giuseppe. All’inizio è vago, poi gli dico che mi trovavo alla vampa della Cala e che avevo incontrato F. Cambia tutto. Lui mi fa: “prof ma non mi hai visto? Eravamo tutti a petto nudo a lanciare le pietre agli sbirri. Mi sono lavato la faccia veloce veloce e poi sono corso lì”. Gli occhi gli brillavano: quello è il suo mondo, i suoi amici e il suo contesto. Chi può impedire a un bambino di lanciare pietre? Chi può contenere la vita animale di giovani corpi incoscienti che rispondono solo agli impulsi naturali mentre le forze dell’educazione necessarie all’indottrinamento sociale tentano in tutti i modi di mutarli? Quella purezza è chiaramente già influenzata da famiglie e relazioni che spingono verso l’avversione per “gli sbirri”, per esempio, ma il punto qual è? Perché ancora a quell’età, e probabilmente per tutto il resto della vita, quello che ci rende immediatamente felici è quasi sempre già stato inserito nel libro delle cose da reprimere delle cose sbagliate? Perché solo crescendo e accusando le grandissime botte della vita ci si rende conto che il compromesso sociale che tutela in modo più o meno grossolano tutti, prevede delle piccole grandi rinunce individuali attraverso innumerevoli soppressori e distrattori della ipocritamente rinnegata “violenza”: il cosiddetto sistema costruito instancabilmente e incessantemente dall’uomo per contenere lo stesso uomo. Ogni uomo che viene al mondo dovrà fare i conti con questo paradosso e proverà odio e gratitudine per questa struttura solida e coercitiva e protettiva e punitiva e salvifica, per tutto il corso della sua esistenza. Anche l’uomo conciliato con le regole del sistema si troverà sempre invischiato in eventi che susciteranno puntualmente dubbio e sconforto e disorientamento rispetto a ciò che è veramente buono o cattivo, giusto o sbagliato. Non ne veniamo fuori, in nessun modo. Siamo sospinti fortunatamente dalla vita che corre verso la morte, motivo per cui quasi mai possiamo concederci il lusso di rimestare in tali ragionamenti. Comunque vani perché prodotti da menti che operano nell’umano, etcetera. Le vampe di San Giuseppe pare che siano apparse per come le conosciamo già nell’Ottocento, ma in verità la tradizione dei roghi a Palermo è viva da secoli e possiamo dire che risalga alla preistoria (l’accensione del fuoco per propiziare qualcosa è da sempre presente nella storia dell’uomo). Io faccio riferimento all’accensione delle vampe che conosciamo, nel centro storico di Palermo, nei quartieri popolari. Il rito prevede che i bambini dell’unità rionale di appartenenza (ma anche gli adulti che si occupano di costruire la catasta e di accendere il fuoco) siano impegnati nella preparazione dei falò. La legna viene raccolta dai bambini e accatastata in uno spazio adibito all’accumulo; poi c’è il luogo di accensione della vampa e infine lo spazio esterno. Lo spazio esterno è luogo franco di scorrerie per rubare la legna agli altri gruppi. Il valore della vampa non dipende solo dalla sua altezza, ma dalla durata delle fiamme e dalla solidità della struttura. La forma della vampa è conica e pare che in alcuni quartieri ancora qualcuno lanci il pane tra le fiamme, dono di San Giuseppe, alla faccia dei bambini africani aggiungerei. Battuta. Eh si, perché quando eravamo piccoli questo era un grande aforismo educativo con impanatura psichedelica perché per lungo tempo ci si chiedeva chi cazzo fossero sti bambini africani e soprattutto dove e cosa fosse Africa.