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Lo stupore pazzesco della fatica. L’arte transitiva di Alessandro Lucci, intervistato per Tracce di Luce

di:

Terza intervista di Enrica Orlando/Rubricosa al performer Alessandro Lucci artista in residenza per Tracce di Luce.

Labirinto di Alessandro Lucci, a Castelnuovo al Volturno


“Il Labirinto ti permette di tornare dov’eri”. Ma cambiato

È qui che hai raccolto le pietre per il labirinto?”

“No, non siamo ancora arrivati dove prendevo le pietre. Sono arrivato in fondo. (all’ultimo “piano” del paese di Castelnuovo al Volturno n.d.a.) sono otto piani di paese, di abbandono. Questo buio che vedi non è buio, è il paese vecchio…

Ci devi fare un giro dentro, ci sono stanze in sospensione, ogni tanto invece c’è una stanza sistemata…  

Questo discorso mi fa pensare a un tema che ho affrontato anche con altri artisti in residenza: il dualismo. Una casa casa sistemata, una diroccata, il buio, la luce…

Io sono abruzzese, ma vivo a Ostuni. Ho vissuto anche fuori, a Sarajevo. La mia arte  è basata su dualismi. Ad esempio sono un artista, ma sempre in ascolto del pubblico in modo diretto. Se a me fai un versaccio, io lo prendo e lo metto dentro: il dualismo è la fonte della mia arte. È come un cerchio: metà la sostengo io… anzi, io lo sostengo tutto, ma sono pronto a concederti anche più di metà. E non mi riferisco solo al senso dell’azione, ma al fondamento che è la metafora e la morale di questa arte (Arte transitiva n.d.a.).
Il teatro partecipato non è quando tu sali sul palco e “balliamo” insieme, poi tu scendi e lo spettacolo è quello.
Io, come altri artisti, cerco di essere sempre duale, è questa l’arte transitiva. C’è tanta gente in Italia che lo fa. Male che va ti vedi uno spettacolo, bene che va c’è stata una festa. E la festa bisogna farla in due, se no…

Per te dov’è il dualismo, in Moulin? Io penso alla questione dell’eremitismo, che ne sminuisce, credo, l’approccio alla vita. Nel senso che lui è vissuto da eremita ma solo per essere più pronto ad accogliere l’altro in modo autentico. Sembra un contrasto, quasi un paradosso no? Isolarsi per connettersi. Invece credo che il suo dualismo fosse nell’accogliere e nel dare attraverso la solitudine. Era isolato sul Monte Marrone ma poi scendeva a valle, realizzava dipinti da donare agli abitanti del paese, in cambio di cibo. Uno scambio che lui riteneva essere alla pari: io ti do un quadro, tu mi dai un piatto di minestra…

E poi non era un quadro, era un ritratto… Mi fa venire in mente una frase di Jean Giono che dice: ma i contadini lavorano o vivono? Tutto quello che fanno è il loro lavoro o è la loro vita? Fanno figli, li campano, costruiscono la loro casa… allora dov’è il lavoro? Certo è un grande lavoro, quello del contadino ma…

Certo, ma coincide con la vita… 

Coincide con la vita. E lui (Moulin n.d.a.) in questa parte finale della vita in cui fa i ritratti e li scambia.. 

La tua anima con un piatto di pasta!

Capito?? L’eremita, anzi “l’uomo del bosco” che scende e porta qualcosa di magico, perché per molti, posso immaginare, vedersi disegnati era un atto magico. Allora ho scelto la forma (del labirinto meditativo n.d.a.) per sottolineare l’aspetto taumaturgico di Moulin.

Mi dici di più del labirinto? C’è la questione di come hai raccolto le pietre, ad esempio. Come Moulin, hai fatto lo stesso percorso… L’arte richiede fatica, anche fisica…

Guarda, la maggior parte delle pietre che vedi qua davanti (nella parte bassa del paese n.d.a.) sono pietre di fiume, fiume che sta qua sotto. Era tutta una grande fatica. (L’artista fa riferimento alla fatica fisica che è stata fatta da chi si era costruito la propria casa da solo con quelle pietre n.d.a.) Perché? Perché il lavoro e la vita corrispondevano, per cui io mi vado a prendere cinque pietre al giorno, ci costruisco la mia casa. 

Il percorso che fai per portarti la tua base, costruire il tuo centro, lo fai con la fatica.

Lo fai con la fatica e la gente te lo riconosce. Ma non solo la fatica, la gente riconosce la difficoltà. Mettersi in difficoltà significa che tu apri uno spazio a qualcuno che ti può aiutare. Se tu sei preciso e chiuso, non ci può essere scambio e partecipazione.

Infatti tu con questa fatica non sei approdato a un labirinto chiuso ma a un labirinto aperto

Anche nelle forme, sì.

Il percorso che hai creato, ognuno lo interpreta a modo suo, per me il discorso dell’apertura sta lì, io l’ho creato ma tu puoi entrare e uscire come vuoi .

Sì, io l’ho creato… l’ho pensato “leggermente”. Poi mi sono sempre lasciato lo spazio per incontrare il luogo, (quello che offre nda) Infatti se ci fai caso ci sono anche delle travi di legno. Perché a un certo punto non ce la facevo (a raccogliere le pietre nda) e allora ho preso le travi, di un bel legno tra l’altro, di castagno. Ma ci sta, perché entro anche in ascolto con me stesso: non ce la faccio più, allora uso le travi. Mi aspetto di incontrare tutto, di incontrare le persone, di incontrare il luogo. Senza mai dimenticare di incontrare me stesso. Rendo partecipe all’opera me stesso.

Si può dire che una cosa è necessaria all’altra?

Forse non necessaria, è sempre, torno ancora su Giono, la vita. Quella è la mia vita, sono stanco, mi ascolto…

Ok, quindi l’arte coincide con lavoro che coincide con la vita.

Modus vivendi, assolutamente. Ma c’è ancora qualcos’altro. L’esempio eclatante di queste giornate qui (del festival n.d.a.), è stato lo scambio con le persone, prima dello spettacolo (Alessandro Lucci, alcuni giorni prima di creare il Labirinto, ha portato in scena FARòFILò una performance che prevedeva prima una cena solidale in piazza -ognuno ha portato qualcosa da mangiare- Poi, gli stessi partecipanti hanno assistito allo spettacolo teatrale durante il quale erano invitati a porsi una domanda e a scegliere uno, tra diversi disegni realizzati nei giorni precedenti da Alessandro Lucci e altri. Ogni disegno corrispondeva a una storia, che Alessandro ha raccontato allo spettatore e al pubblico, regalando “una risposta” nda)  Ognuno portava qualcosa, così puoi partecipare. In realtà tutti potevano partecipare, ma se porti qualcosa…vibri di più.

Questo racconta anche un modo di interagire che ricorda ancora l’approccio di Moulin, uno scambio di beni: io ti offro cibo, tu mi offri arte e viceversa.

Brava, è stato questo. 

Che poi c’è anche il discorso: se tu mi offri qualcosa io sono più aperto ad ascoltarti.

È di nuovo duale. Io mi sono messo in difficoltà: “stasera ceniamo con quello che ci portano”. Cioè se non vieni io non mangio. Se io mi metto in difficoltà apro uno spazio alla partecipazione. Non ti chiedo di portare da mangiare se no è animazione, io mi metto in difficoltà: se non vieni non mangio. Del resto com’è che si aprivano le porte a quel vecchiettino lì

Quanto serve allora, mettersi in difficoltà per fare arte?

Tutti gli artisti lo fanno, mettersi in difficoltà. Parlando del teatro, gli artisti fanno prove, sempre prove. Ma certo è ,che se durante lo spettacolo, se non si creano le stesse condizioni esterne, delle prove, la cosa non funziona… Il silenzio, il buio, la scatola nera, servono a quello, a ricreare le stesse condizioni. Io le prove le faccio dopo lo spettacolo. Mi succedono “cose” durante lo spettacolo, io le “prendo”, sapendo che non mi ricapiteranno, e le riuso. E divento più forte per affrontare le difficoltà. Non per risolverle, ma per viverle. Risolvere e viverle è diverso. Viverle nella mia visione coinvolge di più, le persone mi sembrano più coinvolte… Se ci pensi lo spettacolo è durato tre ore e mezza…

Imparare da quello che è successo, quindi…

Beh così impari. Come quando cadi da bambino: ti rialzi e impari qualcosa. Cadrai ancora, ma sarà una caduta nuova, perché ti sarai messo sempre più in difficoltà, perché vorrai i pattini, la bicicletta, poi toglierai le rotelle alla bicicletta, ma non per andare più veloce…

Per crescere …

Per crescere e per essere più leggero sulla terra.

A proposito di bambini, come hanno approcciato allo spettacolo?

La premessa era che i bambini non possono giocare (i bambini non possono scegliere tra i disegni n.d.a). L’ho imparato dopo un po’, perché i bambini erano super aggressivi, partecipavano senza domande,perché i bambini hanno una grande voglia di scoperta ma l’approccio intimista (nel porsi una domanda prima di scegliere il disegno n.d.a.) non ce l’hanno.  Forse un giorno inventerò uno spettacolo proprio per loro… Comunque in questo caso mi sono accorto che vietare questo gioco ai bambini li rende estremamente attenti.

Perché si chiedono “perché non posso?”

“Perché!? Come è possibile?” E poi vedono l’adulto che si commuove, la signora che annuisce sul palco, “guarda mia mamma che ascolta e io non lo posso fare”, c’è un moto dentro pazzesco… 

E per il labirinto? Come hanno approcciato i bambini?

Lo stesso, io non ho chiamato nessun bambino.

Sono venuti da soli.

Hai visto quella bambina con la maglietta rosa? Sessanta giri, non sto scherzando, infatti quando è tornata ha sorriso e ha detto “si rinizia”. Hanno calpestato le foglie…

Sì, mi dicevi che hai anche operato sulla pavimentazione: hai pulito, eradicato le piante e poi hai coperto tutto con le foglie. (nel luogo dove Alessandro ha creato il Labirinto, n.d.a)

Le piante che esistevano le ho eradicate e le ho piantate altrove: sotto c’era calce sabbia e terra. Poi durante l’escursione in montagna (durante il Festival è stata organizzata un’escursione fino alla vetta del Monte Marrone, per visitare il rifugio di Moulin n.d.a) ho pensato che le foglie avrebbero avuto una texture diversa. Bastava scendere di due, tre dita (dallo strato più superficiale di foglie n.d.a) e trovavi dell’ humus. Non ho rovinato quello, ho cercato di rovinarlo il meno possibile, ma volevo che la base del Labirinto avesse una texture di quel colore e con quell’humus che accoglie la vita. Poi io avrei voluto disfare l’opera, come un mandala: faccio il mio racconto, poi lo distruggo. C’è la fatica dietro, sto raccontando qualcosa che una volta finito non esiste più. Esiste il tuo “orecchio”, quello che ti è rimasto del racconto, a quel punto le cose si mitologizzano…

È quello che è successo con Moulin: la connessione con le persone ha creato il mito che lo rende ancora vivo. Il Labirinto è un po’ un viaggio? Come la planimetria di Laura… (Laura Fanelli nel libretto illustrato “Tratti di Vita” ha illustrato Moulin, ispirandosi alla planimetria del Monte Marrone che nella sua totalità sembra ricordare proprio la barba dell’artista n.d.a.)

Moulin intraprende un viaggio per Roma, ok, ma lo fa attraverso il racconto che gli fa lo zampognaro. Un racconto “sentito”. (Moulin sentì parlare di Castelnuovo al Volturno da un giovane zampognaro che emigrò in Francia dove posò anche per alcuni pittori n.d.a.) Me lo immagino.. io da abruzzese, quando stavo fuori,  raccontavo della mia terra. Ci sono voluti anni, per togliermi questo aspetto. Immagino lo zampognaro che arriva lì, in Francia e di che parla? Di casa sua. C’è una frase di Calvino che è bellissima: “per poter spiegare il mondo e la storia, devo partire da casa mia”.
In tutto questo discorso enorme su Moulin, non dobbiamo dimenticare di mettere a fuoco questo aspetto del racconto di cui si è fidato.

Si è anche fidato della sensazione che ha ricevuto

Esatto, a prescindere dal racconto, la sensazione che gli dava quel ragazzo con la sua passione pazzesca ha coinvolto un grande intellettuale, perché questo era Moulin.

E il Labirinto è un viaggio che ti permette di tornare dov’eri.

Ma cambiato

Quantomeno con un’altra prospettiva. Ecco perché li costruisco. Questo è il secondo. Il primo l’ho restaurato a La Luna nel Pozzo a Ostuni. Il proprietario Robert Mc Neer aveva avuto una crisi di nervi e per questo lo aveva costruito. Il suo labirinto era gigantesco, un quarto d’ora per percorrerlo. Crearlo diventa una pratica per te stesso, non solo quando lo percorri, ma anche quando lo costruisci. Ogni pietra ha un racconto, per questo prendo pietre grandi…

Perché ha più storia . Io questa fatica la relaziono al posto, al Molise, il Molise è un posto faticoso?

Beh sono abruzzese…

Sai di cosa parlo.

Una fatica che dà uno stupore pazzesco…

Il Molise si riflette in Moulin: Moulin “non esiste”, perché molti non lo conoscono, neanche noi. Io stessa lo avevo scoperto per caso. E il Molise ha la stessa fama di non esistere. Ma che vuol dire non esistere? Quanto ci piace? 

C’è un amico Savino Monterisi che dice: c’è anche una dimensione di parole che vengono usate, e che spesso abbiamo accettato anche quando sono inaccettabili. Tipo quella usata peggio è anima: Castelnuovo, paese di 120 anime; Roma, 6 milioni di abitanti.  Quelli sono abitanti e quelli sono anime, allora l’anima esiste?
Ci devi credere… è una grammatica che entra, sedimenta e diventa quotidianità.
La cosa da recuperare in Molise, è la sacralità del Molise. Non lo vogliamo scrivere ad esempio un capitolo nei libri di scuola, sul fatto che il primo uomo trovato nella penisola italiana è a Isernia?

Bisogna crederci

Credere alla propria esistenza.

Perché sembra… non so, sembra che non esistere sia più comodo…

Assolutamente.

Ecco perché ragionavo sull’importanza di mettersi in difficoltà, se ti sforzi un attimo di dirti esistere

Sì sei in difficoltà ma devi alzare la mano per dire che sei in difficoltà. C’è una barzelletta che uso anche nello spettacolo. C’è un uomo che cade nella cloaca e urla “al fuoco al fuoco”. Vanno delle persone per aiutarlo e gli chiedono “Scusa sei caduto nella cloaca perché gridavi al fuoco?” “Perché se avessi gridato Merda Merda non sarebbe venuto nessuno!”

La narrazione di se stessi… è difficile, perché devi metterti in mezzo, alzi la mano.
Io sono importante. Siamo tutti importanti, allo stesso modo. “Non c’ è una cosa al mondo che se la sa fare un uomo non la sanno fare gli altri”, dice Augusto Boal

Il Moulin futuro, si parla di quello che è stato, il ricordo, ma che futuro ha?

Sta nell’incipit, (come il racconto che lo zampognaro ha fatto a Moulin n.d..a) C’è bisogno di gente come voi, come me, che raccontino. 

Le tracce di luce sono queste, quelle che raccontiamo…

Tracce di tracce