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Saper riconoscere la bellezza salverà il mondo. Intervista a Dada per Tracce di Luce

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In occasione del Festival Tracce di Luce, che si è tenuto in Molise dal 4 al 10 settembre, la vostra Enrica Orlando/ Rubricosa è andata a intervistare un po’ di gente molto molto bella, per raccontarvi cose ancora più belle.
Le ragioni sono diverse, le elenco ma non in ordine di importanza:
1. Sono molisana. Sono sicura di averlo scritto in più di una puntata di Rubricosa, ma sono altrettanto sicura che qualcuno potrebbe averlo dimenticato. Al Molise, ahinoi, capita.
2. Tracce di Luce è il primo festival dedicato all’artista francese Charles Lucien Moulin, a cui sono particolarmente legata. Moulin visse da eremita sul Monte Marrone, in Molise. Sì: un eremita in Molise. Già detta così è una storia. Un uomo che viene qui e si isola, in un luogo già di per sé poco famoso per essere facilmente raggiungibile, popoloso, “visibile”. E lui lo fece in anni in cui di sicuro la situazione non era diversa, anzi. Parliamo del 1911, circa. Moulin viveva tra Lille e Parigi, aveva una carriera ben avviata come pittore. Tra studi accademici, mostre e premi un giorno si ritrovò ad ascoltare i racconti del giovane uomo che posava per lui. Era uno zampognaro molisano, di Castelnuovo al Volturno, un piccolo paese ai piedi del Monte Marrone. Il ragazzo raccontava della bellezza dei suoi luoghi di origine, del natura, della luce. Moulin non dimenticò quelle parole e quando vinse il Prix de Rome, un premio per artisti di pregio ai quali veniva data la possibilità di soggiornare in Italia per dipingere, approfittò per visitare il piccolo paese, non lontano dalla capitale. Da allora, non se ne andò più. Costruì un rifugio sulla vetta del Monte Marrone a circa 2000 metri e lì visse dipingendo e nutrendosi di ciò che trovava. Di tanto in tanto scendeva a valle, si integrò con le persone del luogo che ritrasse e che lo accolsero donandogli ciò che potevano, quando potevano. M’ssiù Mulà, o più semplicemente M’ssiù, lo chiamavano. Qualcuno lo credeva uno stregone, un mago, un santo, l’Orso delle Mainarde.
Qualcuno si faceva il segno della croce, intuendo un mistero percepibile ma insondabile, dietro quella scelta di vita e quell’aspetto trasandato. Tutti comunque avevano compreso la delicatezza d’animo e la profondoità dell’artista.
Moulin morì nel 1960 a Isernia, a pochi chilometri da Castelnuovo. Da allora molte cose sono state fatte, anche perché la sua produzione artistica è copiosa e degna di essere studiata e conosciuta. Ma essendo stato un uomo che rifiutava la notorietà e lo stesso concetto di denaro legato all’arte, è rimasto principalmente nell’ombra.
Perché è rimasto nell’ombra? Partendo da questa domanda, 13 anni fa girai un documentario, intervistando le persone che lo conobbero. Da allora ho sempre sperato che un evento di una certa portata nascesse, per ricordare l’artista ma soprattutto per proiettarlo nel futuro. Così è arrivato Tracce di Luce.
Sembra quasi una metafora del tempo che in Molise si dilata, chiede di essere dilatato per poter far emergere ogni dettaglio. Grazie all’associazione CISAV, il Festival ha preso vita e per sette giorni il paese di Castelnuovo si è popolato di spettatori, artisti e visitatori, giunti per scoprire questa storia, farla rivivere, immaginarne un proseguio. Tra i molti eventi -convegni, mostre, proiezioni, concerti, laboratori didattici- sono stati intervistati anche sei artisti, che hanno risposto alla Call for artist e hanno soggiornato 7 giorni in Molise per avere il tempo di creare la loro opera, ispirata a Moulin. I risultati sono stati tutti pieni di significato, densi, inaspettati, potenti. Ed è per questo che io ho scelto di intervistare questi sei artisti, perché sono l’esempio di come l’arte, quindi Moulin, quindi il Molise siano futuribili, talvolta difficili ma dirompenti e forse allora necessari, a chi crede nelle nuove prospettive.

La prima intevista che vi propongo è a Dada, (Maria Antonietta Giovinazzo) che mi ha parlato della sua opera Daimon e dalla sua idea di arte e connessione.

Lanciare la propria anima con un pugno, Dada per Tracce di Luce

Daimon, ritratto di Angelina.
Dada

-La prima impressione all’arrivo in Molise per il Festival Tracce di Luce? Se dovessi riassumerla con una parola.

Sicuramente molto familiare. Io vengo dalla Basilicata, quindi le realtà dei paesi, dei piccoli centri, le conosco benissimo e come da noi ho trovato l’accoglienza. Diciamo che ci sono molte cose simili tra la Basilicata e il Molise, sono due regioni che “non esistono”. Esiste Matera…

-Matera, ci sono stata qualche giorno fa. Sì, ecco, Matera “esiste”, ma come esiste?

Matera “esiste” adesso, grazie a “Matera 2019”. Si è sviluppato molto interesse, il turismo, le produzioni cinematografiche. È una città che a me piace tantissimo, ma ha perso il fascino, si è commercializzata, è diventata come tutte le altre città turistiche, piene di B&B, ristoranti…

-Io ho avuto la fortuna di essere ospite di una persona che vive nei Sassi e mi parlava di questo, ci domandavamo: cosa si perde, nel momento in cui si comincia a “esistere”? Il CISAV nasce tutto su un concetto di valorizzazione dei “margini”: regioni, persone, artisti ai margini – vedi Moulin- che apparentemente “non esistono”. Invece quel “non esistere” talvolta coincide solo con un vivere autentico che va rispettato e accolto. Ma come si impara a “non esistere”? Come si fa a mantenere quell’equilibrio tra rimanere ai margini, non scomparire ma non diventare inutilmente commerciali?
E dunque che significa “non esistere” per un artista?
Perché Moulin esiste, esisteva. Ma esisterà? La domanda è questa. 

Spero che i ragazzi (i ragazzi del CISAV n.d.a) mantengano questa purezza.

Io insegno grafica e comunicazione, qualcosa di opposto alla poetica di Moulin. Tuttavia, ogni volta, dico ai ragazzi: “Voi con un manifesto potete uccidere una cultura o cambiarla”. Penso ad esempio alla “donna oggetto”, o a chi usa una psicologia spicciola solo per colpire un certo target. Io cerco ogni volta di spingere a ragionare oltre l’appiattimento generale che percepisco oggi in Italia. Per questo mi è piaciuta questa residenza d’artista (a Castelnuovo al Volturno n.d.a.), perché ha fatto emergere l’arte, attraverso Moulin. Riguardo la “non esistenza”: io penso che gli artisti la vivano ogni giorno, perché la società pretende che tu, da artista, sia per forza famoso. Se non lo sei, allora sì, sei un artista ma da quattro soldi. Non c’è una valorizzazione dell’arte in sé. Ed è un paradosso, considerato il paese in cui siamo.

-Certo, come è un paradosso che, in una società iperconnessa, proprio l’arte con il suo potere di comunicazione vada a confinarsi ai margini. A proposito di “margini” e arte: la tua Angelina (protagonista ritratta nell’opera di Dada), me ne parli?

Il titolo dell’opera è Daimon, il genio della cultura greca (nella mitologia greca, il Daimon si pone a metà tra divino e umano e fa da intermediario N.d.A.), la parte interiore, l’anima, l’io, quella voce che abbiamo dentro e che Moulin ha fatto emergere, perché ha saputo ascoltarla.

-Si può dire che proprio questo “genio” sia il segreto per trovare l’equilibrio tra margini e connessione con l’altro? Il discorso dell ‘eremita solitario forse è errato, lo diceva anche Tommaso Evangelista (critico d’arte intervenuto nel Primo convegno internazionale su Charles Moulin, del 9 settembre 2023). Attraversando la propria interiorità, Moulin è stato connesso alla realtà e alle persone, più di quanto non riusciamo a fare noi, oggi, con tutti i mezzi tecnologici a disposizione.

Moulin ha ascoltato la sua voce interiore. Poteva diventare famoso, ma ha fatto un’altra scelta. Non merita certo di non essere citato nei libri di storia dell’arte solo per questo. La cultura è di tutti.

-Infatti una delle domande che anche io mi sono posta, e ho subito posto, è stata: perché un personaggio simile è ancora sconosciuto?

Forse perché ha rinunciato a certe cose e ha scelto di farlo in un piccolo pezzetto di mondo.

-Sì, in un luogo che un po’ lo ha aiutato e un po’ lo ha confinato. Chissà che questo luogo non abbia avuto un po’ lo stesso doppio effetto su Angelina. Qual è il Daimon di Angelina, dov’è?

Ti racconto l’opera. Io sono un’artista che usa tanto i colori primari: giallo, rosso, blu. Mi definiscono “violenta”, perché quando vedi i miei quadri l’impatto è un pugno nello stomaco che piano piano diventa più dolce. E allora si capisce totalmente l’opera. 

I miei quadri denunciano, non entro facilmente nelle gallerie perché dicono che parlo troppo e questa cosa non piace molto al mondo dell’arte. A me non interessa assolutamente.

Con Daimon non volevo però essere troppo forte nel dire determinate cose, considerato che l’ ispirazione partiva sempre dalla delicatezza dell’arte di Moulin.
Il supporto è un pallet, un materiale povero che si trova ovunque. È legno e, anche se è secco, è vivo: assorbe i colori, li rigetta. È vivo e rappresenta quello che è la natura e la figura di Moulin. Ho dovuto girare e rigirare più volte il pallet, perché ci sono tutti questi spazi tra una tavola e l’altra, ed ero indecisa su dove “spaccare” il viso di Angelina. A livello concettuale, uno spazio l’ho inserito sulla testa, per dare il messaggio di una spaccatura tra una mentalità che noi consideriamo vecchia e uno sguardo che è rivolto verso il futuro, con la speranza che possa cambiare, una spaccatura tra il passato e il presente.

Giusto, Angelina quanti anni ha?

95 anni.

95. Anche lei come il legno, vivissima. Tra l’altro mi interessa questo discorso che facevi sulla “violenza” dei colori primari. Proprio adesso ne parlavano al convegno: Moulin non ricercava il primitivo, anche se potrebbe esserci questo fraintendimento. Lui si è ritirato a vita solitaria ma cercava “l’origine”. Quindi la tua idea di utilizzare i colori primari è in linea con la filosofia di Moulin, hai fuso il tuo modo con il suo, che a sua volta aveva “adattato” il suo modo di dipingere, all’incontro con la luce delle montagne molisane.

Sì. Del resto i colori sono alla base della comunicazione. E la simbologia del colore cambia in base al contesto. 

Se Moulin fosse un colore?

Verde. Forse anche il marrone. Anzi l’ocra.

Per la luce… 

Sì.

-La vita di Moulin: un pezzo di vita in Francia, uno a Roma, uno in Molise. A me questi pezzi del pallet che compongono Angelina ricordano anche questa idea di multidentità.

È giusto. Per questo ho chiamato l’opera Daimon. Il Daimon c’è, è in noi. Se lo senti e lo ascolti, viene fuori. È la tua origine, da lì poi, noi cambiamo…

-Quindi il punto è mantenersi in ascolto con quel centro lì?

Sì, mantenersi in ascolto, osservare. Non è facile. Bisogna saper riconoscere il luogo giusto in cui farlo. Moulin lo aveva trovato nella montagna. Adesso è più difficile, nel contesto in cui viviamo… siamo circondati da rumori.

-Abbiamo parlato di non esistere, di margini, di arte, di Angelina. Mi viene in mente l’idea della condizione di artista-donna, oggi.

La donna è sempre ai margini, continua a essere ai margini, non è valorizzata è palese. 

-E tu rispondi con la tua arte, no? La tua “violenza” comunicativa, quella di cui parlavi, sembra un po’ una risposta a questo. Come a dire: “mi prendo il diritto di dire” .

Sì. Come nei rapporti tra esseri umani: è più facile amare la menzogna che la verità. Soprattutto quando è una donna, a dire quello che pensa, la risposta spesso è: “vabbé si lamenta, è una femminista… etc”

-Purtroppo sì, perché si sente il bisogno di definire, etichettare per chiudere in una cornice. Così è più facile.

Michela Murgia è un esempio perfetto di come vengono trattate le donne che parlano.

-Ma sai che ci stavo pensando anche io, adesso? Quando è morta mi sono tornate in mente proprio le sue parole: “di tutte le cose che le donne possono fare, parlare è considerata ancora la più sovversiva”. A proposito di sovversione, mi racconti questa storia del pugno di Angelina?

Ha lanciato la sua anima con quel pugno! Quando ho esposto l’opera e Angelina l’ha vista mi ha detto: “Chi è questa?”
“Come chi è!? È lei, Angelina”
“Ma che sono queste cose…” e ha fatto il gesto del pugno contro il pallet.
Ha detto: “Non mi somiglia, è un maschio”.
E io sono contenta, se ci ha visto pure il maschio. È perfetto, vuol dire che ho unito le due cose.

-Lì per lì, si potrebbe pensare “ho sbagliato, ho fatto il ritratto di una persona che però non si riconosce nell’immagine”. E invece forse lo scopo è anche quello, rivelare un altro sé.

E poi invece tutta la gente: “Oh, è Angelina”. L’hanno riconosciuta. 

Dunque lei non si riconosce in quello in cui la riconoscono gli altri, questa cosa è bellissima. È il potere dell’arte. Quale potrebbe essere il potere di Moulin in futuro?

Io vorrei che Moulin fosse famoso, ma non vorrei mai la commercializzazione di Moulin. Vorrei che il suo pensiero entrasse nelle nuove generazioni, perché è la speranza, che mi aspetto possa salvare il mondo. Non è la bellezza, quello è un concetto più complesso. Ma la speranza di imparare a ascoltare noi stessi, che siamo collegati, come ha fatto lui… Si è connesso alla natura. E la natura siamo anche noi.

Connettersi a se stessi, per connettersi agli altri. Si può parafrasare, dicendo che “Saper riconoscere la bellezza, salverà il mondo”? Riconoscere quella bellezza che c’è, è lì… 

E noi ne facciamo parte, facciamo parte di una complessità. Quando entri in questa connessione, c’è lo sguardo. Non a caso si dice: “gli occhi sono lo specchio dell’anima”. Si può leggere tutto, negli occhi. La parola spesso inganna.

Una volta che ti connetti con te stesso, e poi con gli altri, crei una costellazione di “Tracce di luce”, di tracce che possono essere unite, come si fa con i puntini, ma non per chiudere, per espandere…

Sì.

*Illustrazione di copertina di Enrica Orlando