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Intervista a Carlo Molinaro

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Non tutti conoscono Un garbo libero di Carlo Molinaro e non tutti conoscono qualcos’altro. Io e Carlo ci siamo conosciuti due anni fa quando girai questo video con Andrea Masu per Luca Atzori: SILENZIO. Le vicende di questo videoclip sono poi non pertinenti (o chi può dirlo) l’incontro fisico tra me e lui è avvenuto in seguito a Bologna; Carlo ha conosciuto Circe e Moliterni e la mia intimità accarezzandola con un sonnellino e portandomi dove non sapevo portarmi da sola. L’animo gentile di Carlo lo definisco tale perché lui ha sempre dato legittimità e credibilità alla mia narrazione, alla mia immaginazione, alla mia vita inutile, ma comunque inevitabile per me. Carlo ha scorto e scorge il mio passaggio e mi riconosce e non mi respinge. Penso di leggere solo alcune parti della sua di esistenza: vedo quando cerca il sole e quando cerca l’ombra. Trovandoci a distanza e non potendo quindi registrare una traccia audio con le nostre due voci insieme a intrecciarsi, l’accompagnatore verbale di Carlo è stato Andrea Gruccia, altro poeta respirante e vivente a Torino. Mi piace pensare che se mi fossi trovata nella stessa città la conversazione sarebbe stata un trittico da overdose. Se interessati a mettere come sottofondo qualcosa che non sia musica della radio o playlist online, a questo link trovate quello che io chiamo tappeto sonoro X, che nello specifico è una chiacchierata tra Carlo e Andrea in un parco della periferia di Torino: parole soltanto parole. Le parole sono importanti nella nostra vita, sia come scrittori che come guerrieri parlatori. Mi si vorrebbe tagliar la lingua, a Carlo non so, ma io vengo esortata spesso al silenzio, in modi anche particolarmente severi. E ci sta, bisogna saper stare zitti, è una legge non scritta, ma da tutti condivisa con una certa violenza. Mi piacerebbe avere questa abilità, ma temo di avere un ennesimo difetto. Pensarmi come accollo logorroico (che è quello che vorrebbe farmi credere qualcuno) è molto raro quando comunico con Carlo. E’ come se ci fosse un salotto di gioco dove ogni cosa è consentita e questo privilegio non è unico, ho la fortuna di averlo con altre animelle. Tanto io parlo lo stesso. E Carlo, pure.

“frammentazione” di Cristina Paolino e Andrea Gruccia.

AZZURRO

L’azzurro sta bene con l’arancio, però non ho colori preferiti, forse qualche verde cupo mi disturba, ma solo se artificiale. Tendo a mescolare i sensi, certo la vista è fondamentale e ha il vantaggio di non richiedere un contatto troppo ravvicinato, quasi sempre prima vedi e solo dopo, se puoi, annusi tocchi gusti. E l’udito? Non so, l’udito non so, è un senso molto concettuale. Magari mi manca un po’ di sensibilità uditiva istintuale, una volta un amico con cui parlavamo di due cantanti (femmine) mi disse: quella che piace a te è perfetta per la testa, ma quella che piace a me va nella pancia. Forse la mia pancia è un po’ sorda. D’altronde ho avuto una giovinezza assai inibita e poi a superare il muro sono stati più bravi l’olfatto la vista e il tatto. Non sono entrato molto nella musica, associo l’udito soprattutto alla parola, quasi alla scrittura, dunque è un senso più mediato, come un foglio scritto, un foglio scritto non ti tocca finché non lo decodifichi. Non so. Poi ci sono i suoni della natura e degli scenari, che è una faccenda ancora diversa. Ma tornando ai colori sono importantissimi, i contrasti, una donna in un catsuit (“tuta intera molto aderente, realizzata in lana o materiale elastico come lycra, latex, PVC” – è la prima volta in vita mia che scrivo catsuit e ho controllato) monocromo non riesco quasi a vederla, anche se plasticamente ogni dettaglio è evidenziato, ho bisogno del contrasto cromatico, credo. Ma forse nell’udito mi manca un percorso, Cristina è la prima di cui ricordo la voce, intera con tutte le inflessioni e i modi, invece mio padre non so, non so proprio dire che voce avesse, è vero che è passato più tempo, ma di molte persone non ricordo la voce anche se ci ho parlato ieri e sono vive, mah. Poi tutto è mescolato.

LEAVE BRITNEY ALONE

Leave me alone, tante volte, sono diventato più insofferente. Guai ai consolatori. Chi mi dice che esiste l’oltre e qualche dio e tutto si salva e ci si rivedrà e tutto sarà riparato, chissà poi lui come fa a saperlo, lo mando a cagare. Chi mi dice che siamo animali con la disgrazia della coscienza ed è tutto qui e non c’è nulla di nulla e amen, lo mando a cagare, “le verità cercate per terra, da maiali / tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali: / tornate a casa nani, levatevi davanti / per la mia rabbia enorme mi servono giganti” – quella canzone del vecchio Guccini fa una bella rassegna.

Poi, Britney si procura da sola la solitudine in un alloggetto vicino al Cigno Azzurro, al riparo dai violenti e dai saccenti e dagli usurpatori e dai volenterosi inetti e presuntuosi e anche da me che non sono migliore e c’è qualcosa di colloso da cui nessuno si salva, infine lascia anche sé stessa, si butta fuori.

Questo libro “Un garbo libero” è confuso e insopportabile, contiene parti che detesto, avrei dovuto tagliare molto ancora ma non ero in grado di farlo e forse non lo sono nemmeno adesso, due anni dopo. La poesia racconta, non può determinare o cambiare la storia, è ovvio. Ma il racconto può essere inadeguato, appiccicaticcio. Il racconto, o forse ciò che viene raccontato. Non lo so. Un libro è un libro, dovrei riuscire a immaginarlo dalla parte del lettore, cosa sa il lettore? Poi ho pure messo poesie in ordine sparso (all’interno di ciascuna sezione) per confondere le idee, no, perché non avevo voglia di riordinarle. Una poesia in particolare mi è intollerabile, “Il vuoto”, a pagina 116. Una disperazione da impazzire e lei si era soltanto allontanata. E adesso? Il vocabolario sono tracce in un barile raschiato.

Non posso mica fingere di essere un lettore, ci sono i critici per questo, se qualcuno ha voglia. In me è tutto intrecciato. Sono arrivato a pensare che Britney faceva bene a difendersi anche da me. O dovevo invece sfondare la sua porta, prima apertissima, e fosse quel che fosse? Il silenzio è cresciuto… Fra le canzoni che lei ha lasciato sul mio computer: “You do not know: / silence like a cancer grows. / Hear my words that I might teach you, / take my arms that I might reach you…” e “Call my name and save me from the dark.. / Bring me to life, I’ve been living a lie”.

C’è una luce così strana, irreale. Don’t leave Britney alone – ma solo se hai la consapevolezza (nella carne più che nella ragione) che stare vicini a Britney è farsi carico, non tenere nulla da parte. Credo di averci provato – ma lei sapeva irrevocabilmente che non era possibile, a nessuno – neanche a lei. Non so, non so, non so. Leave me alone.

SOLSTIZIO D’ESTATE E ALTRE TAPPEZZERIE

Fuor di metafora le tappezzerie non si usano più, tranne forse in certe alloggi particolari. A casa dei miei c’erano, ed erano quelle degli anni Sessanta, molto vistose, con disegni geometrici invadenti, anche pugni negli occhi. Poi c’era la tappezzeria quando presi in affitto la casa in via Pinelli, ma la feci togliere subito e dare il bianco. Vent’anni in quella casa, è dove sono stato di più e dove ho avuto più amori, diciamo. Tre anni fa ho cambiato, un po’ perché volevano aumentarmi l’affitto e un po’ anche per Cristina, avevamo abitato insieme e poi non più e forse volevo allora andare via anch’io. La casa nuova di adesso mi piace, è all’ottavo piano con una gran bella vista, è in periferia ma a me piace la periferia.

C’era la tappezzeria anche nel monolocale di Elena, nel 1989. Elena non fu una storia profonda, anzi non fu nemmeno una storia, però è importante perché è stato come un primo… non so, grimaldello? un primo colpo di leva su un coperchio sigillato? ero insofferente (ma forse non lo sapevo ancora bene) del mio strano matrimonio, una non-scelta derivata da problemi che non posso qui nemmeno riassumere, una vita schiacciata, un non-io, ecco. Elena l’avevo trovata con un annuncio, ma non gli annunci belli di Linus o di Smemoranda attraverso i quali ebbi dei veri amori (ci sarebbe tanto da raccontare su questo, gli annunci di Linus erano letteratura, poesia, infatti poi ne raccolsero molti in un libro- divago sempre) ma un annuncio molto più semplice e concreto su un giornaletto di quelli che allora c’erano (mica c’era internet) e dove offrivano auto, case, mobili vecchi e nuovi, biciclette, vacanze, lavori e lavoretti e anche, camuffato in vari modi, quello che a volte chiamano il mestiere più antico del mondo (ma secondo me la caccia al mammut è più antica). Lei si presentava come “modella” per fotoamatori al proprio domicilio, foto però non ne aveva da mostrare e il domicilio era un vecchio alloggetto molto buio senza nessun angolo adatto a scattare. Poi un maestro avrebbe potuto ricavare foto bellissime pure lì, ma non era lo scopo e non so se sia mai successo. Insomma, era una “squillo”, come allora si diceva ancora ma era già un po’ in disuso come parola. Io però ero un tipo strano e la intesi come modella, la fotografai nuda naturalmente pagandola ma poi non feci altro e provai una relazione, non so… Ero abbastanza confuso (anche adesso insomma) e forse timido. Non so come dire… Mi piacevano le puttane, proprio come fascino, e ho sempre pensato che fosse un più che nobile lavoro, ma poi temevo di sbagliare intendendola come puttana, avevo dentro di me mille strati di incrostazioni borghesi e repressive eccetera. Andammo al cinema, una volta anche a teatro, lei era divertita da questo, però non ci dicevamo le cose. È strano non dirsi le cose? Strano fino a un certo punto, mia moglie e io in vent’anni non ci siamo detti un cazzo mai. Forse è più diffuso di quel che si creda. Nelle foto di Elena comunque è rimasta la tappezzeria, un disegno floreale a losanghe. Aveva affittato il monolocale in una casa vecchia e l’aveva lasciato com’era, era bello. La raccomandai (me lo aveva chiesto lei di trovargliene…) a un amico pittore, la raccomandai come modella, poi l’amico, un tipo pratico, mi disse che modella proprio no, ma era una puttana simpatica. Doveva essere ovvio, ma io ci metto sempre un po’. Indizi: il letto non era mai rifatto, ma solo coperto da un lenzuolo grezzo facile da lavare, talvolta con qualche alone sospetto; in bagno c’era un rotolo di asciugamano di carta, all’epoca rarissimo, ma adatto a clienti, e il sapone con il dispenser, che oggi non è raro ma allora non si usava se non, appunto, per luoghi un po’ pubblici. E lei non fumava ma spesso c’era odore di fumo mescolato ad altri odori promiscui eccitanti. E la trovavo con reggicalze e calze di nylon magari al solstizio d’estate, umida. Era bello andare da lei, la guardavo nuda e fotografavo e annusavo e parlavo, ma l’amico pittore non ci ha mai creduto che non avessimo scopato. Mah, era la prima volta che cercavo aria fuori dalle pareti coniugali, non era granché come inizio ma era pur sempre un inizio.

IL TRENO E LA VOCE

Treni ne prendo a centinaia, amo quasi viverci sopra, ma se ci metti accanto la voce allora è Cristina che davanti al vagone a Porta Nuova mi bacia. Eravamo già stati in un letto insieme, c’è la cronaca, proprio la cronaca nella poesia che dà il titolo al libro, “Un garbo libero”, pagina 40, e ci eravamo già sfiorati, forse quasi baciati, ma… Quel pomeriggio in giro per Torino avevamo parlato, lei si apriva tantissimo, come con nessun altro mai, mi ha detto, e poi si chiudeva, era fragile come un cristallo sottile arabescato di storie, era tutto preziosissimo e instabile, io ero innamorato, c’era un “noi” che era come un oggetto difficile da trattare, da conservare bene, da coltivare, quel pomeriggio ci eravamo detti che forse era meglio restare “solo” amici, per lei ogni uomo era un usurpatore, alzava demoni, forzava porte su abissi remoti e spaventosi, e io anche se ero attratto da lei in modo totale convenivo che sì, forse era meglio, e lo credevo veramente, che lei così in qualche modo si ricostruisse, dopo devastazioni su cui non si è mai riuscito a fare piena luce. Alla stazione davanti alla porta del treno ci salutiamo, lei fa per salire, ma non sale, torna verso di me e mi bacia, forte, sulla bocca, e abbiamo quindici anni e la vita può aprirsi e gli occhi con la loro voce dicono che no, non saremo solo amici. Un attimo che vale l’essere nato, però forse invece era un errore, lo scampo immaginato non c’era e sarei diventato anch’io un usurpatore, o forse no, alla fine no, ma nulla è servito a…

IL DESTINO, LO SCIROPPO E TUTTA LA FRUTTA DI STAGIONE

Molto tempo fa una ragazza con cui ebbi una storia bella, leggera in senso buono (“leggera in senso buono” sarebbe da spiegare ma devo liberarmi dall’ossessione che spesso mi prende di spiegare tutto, se no faccio un’enciclopedia per dire “passami il sale” – la poesia è più indenne da questa ossessione ma non posso fare solo poesia) in un periodo fraudolento, io avevo moglie ignara e lei un fidanzato ignaro (però entrambi eravamo in fase di distacco da quel destino, solo che non sono processi velocissimi, non sempre) e lei prendeva la pillola e dunque facevamo senza preservativo e io molto spesso le venivo dentro (apriti cielo la gravidanza non è l’unico rischio e se lui e se lei e se loro ed era un’epoca di aids roboante e voi rischiate se volete ma fate rischiare anche gli ignari – sì ma è un po’ come mettere il casco in bicicletta ai bambini, mia figlia coraggiosamente non glielo mette, ma se poi si rompe la testa? oltre il dolore la colpa… l’ossessione della sicurezza è insidiosa) dopo una scopata molto bella mi disse: ma non è che poi sgocciolo il tuo sciroppo in faccia al mio ragazzo? – in realtà l’idea la eccitava, è chiaro, e si stava liberando da una situazione pericolosa, il fidanzato, un siciliano all’antica, l’aveva colta a quattordici anni e si beava nell’idea di essere il primo e l’unico nunc et semper (che oggidì è mica facile, eh) e in quel momento lo credeva ancora, ma era proprio doveroso, una missione, rompergli le uova nel paniere, anche se fargli colare in faccia un albume altrui forse non era il modo migliore. Comunque questo dettaglio della storia mi è rimasto impresso perché sono sicuro che esiste una novella, forse del Trecento-Quattrocento, che verte proprio su ciò, forse un autore minore (per quindici anni ho lavorato al Grande Dizionario della Lingua Italiana della Utet e leggevamo autori anche minorissimi di ogni epoca) del glorioso filone osceno furbesco, “monna Bice si prende piacere con uno suo amante che le riempie d’ovo crudo il paniere e poco dopo si giace con il marito e cavalcandolo gli sputa in viso dell’ovo crudo ed egli ha sospetti però monna Bice con argute storie se la cava”, tipo. Ma non la trovo! Non posso essermela inventata, sono sicuro che c’è, ma con tutto google eccetera non la trovo. Se qualcuno la trova me la passi. Comunque quel periodo, ancorché fraudolento, fu molto bello, dopo un lungo destino d’anestesia totale emotiva scaturita da [evito cento pagine di psicologia] mi stavo liberando e cominciavo con l’assaggiare frutta fresca di una stagione più vera, più reale, e lo so, la moglie, i bambini, ma non c’è liberazione senza qualche ferita, chiedetelo ai partigiani, forse potevo troncare un tre o quattro anni prima ma è facile dirlo.

QUEL CHE RESTA DEL GIORNO

Già a vent’anni pensavo che la vecchiaia fosse invivibile e lo penso ancora. Sono rimasto coerente su ciò. Ma adesso ci sono dentro e la vivo. La vecchiaia fa schifo. Quel che resta del giorno è il suo morire troppo lento. Il tramonto è affascinante perché dopo c’è la sera e poi magari dormo e dopo c’è l’alba e poi un altro tramonto. Poi è anche una finzione perché il sole, di suo, non tramonta, siamo noi che giriamo, ma insomma questo lasciamolo agli astronomi, a guardarlo il sole tramonta.

La vecchiaia fa schifo e per viverla bisogna pensare ad altro. Questo vale un po’ per tutta la vita ma per la vecchiaia di più. Non è che non ci siano delle cose che fanno vivere, ci sono. Però… Non so. Le belle di notte sul balcone hanno attecchito, magari fioriranno. Vengono da semi che ho raccolto sotto un arbusto a una fermata di bus. Ci sono delle cose che fanno vivere, anche scrivere adesso in questo momento per Leda è una cosa che fa vivere. Però questo sfacelo del corpo, e sapere che non può che andare sempre peggio, ma che dio ignobile si è inventato una conclusione così? Già stare in un corpo, in assoluto, mi è sempre pesato. Mi è sempre sembrato di essere una coscienza puntiforme legata a un corpo. Forse è una cosa occidentale, dicono che gli occidentali hanno un corpo mentre gli orientali sono un corpo, non lo so, forse è una cazzata new age. E comunque poco importa. Stare poi in un corpo sull’anticamera della putrefazione… E però penso con dolore a lei che a trent’anni ha deciso di chiuderla lì. Ha fatto bene? Non lo so ma è tutto doloroso.

Certo ho avuto l’amore più bello a 65 anni, è stato un miracolo, ma lei ne aveva 28 e forse davvero sono stato in qualche modo un usurpatore. Non nel senso di averle “succhiato gioventù”, quella sì è una cazzata new age, ma per una ragione che quasi definirei estetica, e non è una definizione frivola.

Ho sentito femministe incazzarsi con una poesia di Vittorio Sereni, una poesia bellissima, che finisce con questi versi: “Folta di nuvole chiare / viene una bella sera e mi bacia / avvinta a me con fresco di colline. // Ma nulla senza amore è l’aria pura / l’amore è nulla senza la gioventù”. E quelle gnegnè i soliti maschi che vogliono la figa fresca, si può amare anche a trenta quaranta sessanta cent’anni. Certo che si può, ma non capite che ugualmente l’amore è nulla senza la gioventù? E capiteli un po’, questi poeti, cazzo!

Cristina minimizzava la nostra differenza di età, non ci badava proprio. Forse faceva bene nel senso che quando eravamo congiunti nei migliori momenti avevamo, sì, quindici anni, entrambi. Però c’è, attaccato, questo corpo in sfacelo. Un po’ da sempre. È funesto a chi nasce il dì natale. Leopardi va riletto con più attenzione, anche tutte le prose. È uno dei padri della filosofia moderna, oltre che un grande poeta.

Le cose che scrivo, in generale ma anche proprio specificamente qui adesso, mi appaiono infinitamente contraddittorie. Non so se vale come consolazione e scusante quella frase abusata, citatissima, di Walt Whitman: “Mi contraddico? / Va bene, e allora mi contraddico / (sono vasto, contengo moltitudini)”.

Cristina in particolare conteneva moltitudini in conflitto, frammenti che non riusciva a ricomporre. Peraltro anche questo discorso dei frammenti, molto (troppo?) caro a psicologi e psichiatri, non so se lo capisco bene.

«”Non ti vergognare / mai di avere amato” / diceva mio fratello / mentre tra le ossa fini / dilaniate non potevo / respirare senza ridere. // Per sempre una / bambina senza confini / – invisibile velleità».

La vastitudine sconfinata è la velleità di una bambina. Nello strazio devi ridere per respirare. Ma non voglio farne una parafrasi. Sono versi di Cristina Paolino (1990-2021). Contengono mille sensi e uno solo, come le migliori poesie. Devo riuscire a pubblicare un libretto di cose sue. Poche, perché il più è andato perso.

5 A.M. E ALTRE DANGER ZONE

Lo svanire della luce mi ha sempre dato un qualche sgomento, ma da giovane, insomma da abbastanza giovane, era compensato in buona parte da un interesse per la sera e la notte. Adesso prevale lo svanire della luce, benché la notte resti interessante. Per un periodo, fra i venti e i trent’anni mi pare, avevo più attacchi di panico la mattina, poi. Ci sono stati cambiamenti. Da quando non lavoro, cioè non ho un lavoro fisso, non ho più orari. Posso cenare alle sei del pomeriggio o alle tre di notte e così effettivamente accade. A volte ho qualche impegno, ma più spesso no, e questo mi consente di fregarmene dell’insonnia – qualche privilegio la vecchiaia in pensione ce l’ha. Credo che l’ansia dell’insonnia sia molto legata al “poi devo andare al lavoro”. Se so che addormentandomi alle sei del mattino posso poi dormire fino a mezzogiorno, non c’è problema, no? La notte mi prendono angosce, ma non sono legate all’insonnia. Cioè, non è che vorrei dormire ma non ci riesco, è che non ci provo nemmeno perché sono preso da pensieri, da onde nella mente, qualcosa così. Certo nel silenzio notturno succede che la mancanza urli più forte, è di notte che proprio non accetto che lei sia morta, e giro come un criceto prigioniero fra il sentirmela accanto e il percepire che non è vero.

Ma il pericolo non ha orario. A volte ha qualche luogo, ma non sempre. Andare a Vercelli da mia madre mi mette spesso di cattivo umore, percepisco una distanza abissale da lei e da tutta la famiglia di origine, siamo stranieri, lingue diverse. Ciononostante a volte mi scappa di confidare qualcosa di mio, e viene maltrattato perché proprio incomprensibile. Ma forse sono io ipersensibile. Come fa mia madre a dire della morte di Cristina “tanto non sarebbe rimasta comunque con te”? C’è un dolore contrattuale a cui attenersi? Trovo peggio questo che quando dice che porto sfiga e l’ho uccisa. Certo è una madre un po’ strana. Con Cristina parlavamo delle nostre madri che, per una curiosa coincidenza, hanno lo stesso nome di battesimo. E non ci abbracciavano mai. Lo dice anche quella poesia cronaca del garbo libero… Notavamo di non essere stati abbracciati in un momento in cui non sapevamo se era possibile abbracciarci o no. Questa è stata una danger zone irrimediabile, il pericolo dell’abbraccio e del non abbraccio. Quando Cri si stava allontanando e diceva più spesso che ogni uomo era un usurpatore, una sera stavo male e lei si è avvicinata per abbracciarmi e io l’ho respinta dicendo: se ti fa male, non toccarmi. S’è infuriata tantissimo, ha gridato che non capivo nulla e ha dichiarato forte di avermi amato, del “ti amo” avevamo paura entrambi ma lei lo ha detto, al passato però. A volte ci percepisco insieme in vite precedenti e vorrei che ci ritrovassimo in vite successive ma è una grande sciocchezza. Lei mi percepiva in modo sorprendente. La danger zone è dappertutto forse.

DORMIRE CON O SENZA CUSCINO E SE CON, COME E A QUALE CONSISTENZA

“Non sono stato mai comodo al mondo” dice una mia poesia di forse vent’anni fa o anche di più – il tempo passa. Non è solo una metafora. Non so mai dove mettere le braccia, le gambe, la testa, tutto, in ogni posizione sono scomodo. Questo vale anche per il cuscino. Adesso dormo da solo in un letto a due piazze e gestisco due cuscini che sono diversi perché erano troppo alti, troppo spessi e allora ne ho cambiato uno ma uno solo, tanto ormai ero da solo. Così uno è sottile, ed è quello che uso, e uno è rimasto spesso, a volte lo abbraccio, non per fingere che sia una persona, no, ma sempre per cercare posizioni. Poi in qualche modo mi addormento ma non so mai in quale posizione.

Quando mi assopisco in un dormiveglia mi succede, quando riprendo coscienza, che i miei arti non sono dove penso che siano. Proprio davvero, trovo una gamba dove non doveva essere, non so se succede a tutti o se è una mia patologia, comunque non è grave, poi prendo atto di dove sono i pezzi di me e va bene. La prima notte di Cristina da me lei ha dormito con la testa su cinque asciugamani ben piegati, in quel momento non avevo un cuscino in più, casa mia è un variabile casino.

CAMMINARE, CAPPUCCINO LINGERIE E ALTRI SPORT DELLA MIA VITA

Recentemente una tipa con cui ho avuto una storia una quindicina di anni fa, sono andato a trovarla, così da amici, lei in camera si è cambiata e a un certo punto mi hai chiamato: se vuoi approfittare a guardare… ed era nuda. Però niente, non aveva altra intenzione che mostrarsi, sapeva che mi piace guardare donne nude, era per farmi un favore. Così ha detto, poi io sono un insicuro e mi resta sempre qualche dubbio, forse dovevo saltarle addosso, ma non credo. Non so neanche se lo desideravo, tante cose non so. Sono sempre stato abbastanza poligamico, essere con una non mi toglie il desiderio di altre. Poi è successo che Cristina occupava tutto lo spazio e un’amica che se n’è accorta mi ha detto: e adesso, il poliamore? Beh, che c’entra, non lo rinnego, ma se succede che una occupa tutto lo spazio, allora è così.

Il cappuccino non so nemmeno se mi piace ma mi piace sedermi ai tavolini dei bar e non so mai cosa prendere. Nel 1991 ho smesso di bere alcolici, ma adesso se apro qui la storia del mio alcolismo è troppo vasta, comunque sono astemio da 32 anni e mi piaccio così, sto bene.

Lo sport principale è girare, un mio amico dice che ho la dromomania – volendo dare un’etichetta a tutto! Girare a piedi o in bicicletta o, moltissimo, con mezzi pubblici, bus tram e treni. Anche battelli se sono a Venezia, tutti i mezzi pubblici.

Se non sono proprio in angoscia, trovo qualche bellezza dappertutto. Spesso faccio foto e video per condividere quello che trovo, anche se so che magari non interessa a nessuno, ma è rilassante per me. Andrea una volta ha scritto: se non hai una persona con cui condividere, finisci a condividere con tutti. In effetti quando stavo con Cristina mandavo molte cose a lei, e lei a me. Ci faceva piacere mandarcele. Anche una foto del nipotino in giro (io) o una cicatrice di una medusa su un braccio (lei) – per esempio. Adesso non ho una persona che so che le fa piacere ricevere le mia cazzate e così le mando “al mondo”.

Però sono un po’ fiacco e a volte mi sento stanco, stanco, vado avanti per inerzia quando so che fermarmi sarebbe peggio.

POSTE ITALIANE

Ecco, uno sport della mia vita è stato anche scrivere lettere. Da quando avevo otto anni e cercavo pen friend in una rubrica su “Topolino”. Scrivere mi ha salvato sempre un po’ dalla timidezza e dall’insicurezza e dalla chiusura. Non solo da ragazzo, anche da adulto. La maggioranza dei miei amori, una maggioranza schiacciante, è cominciata con delle lettere o simili. Non sono capace di corteggiare a una festa, cose così, sono imbranato. In fondo anche Cristina ha cominciato mandandomi dei messaggi su Messenger, Facebook. Lo ha fatto lei, in questo caso, e nel giro di tre giorni ci siamo visti, non eravamo per il virtuale. Poi anche se ci vedevamo le ho scritto delle lettere e le faceva piacere, le ha sempre tenute, di questo sono contento. Le aveva portate anche nell’ultima casa, poi non so.

Le lettere di carta hanno una densità, un aroma, un valore che non c’è nelle cose elettroniche. Purtroppo non se ne scrivono più. Non è che anche allora (anni Settanta-Novanta) tutto scrivessero, no; però c’era uno zoccolo duro di gente che lo faceva. Molte ragazze. Un mio sfacciato annuncio sul giornaletto di Smemoranda mi fruttò centocinquanta lettere, non ero un ragazzo, avevo 41 anni, ce lo misi sfacciatamente: “Vecchio leone fabbricato nel 1953 cerca ragazze fabbricate negli anni Settanta – e poi un po’ di altre cose poetiche ma il nocciolo era questo: ho quarant’anni e voglio delle ventenni o anche meno che ventenni. Oggi forse non lo pubblicherebbero, è scorretto! Mi risposero in centocinquanta, ovviamente non con tutte poi si sviluppò qualcosa, ma con cinque alla fine feci l’amore. Adescavo ragazzine, direbbero. Sono lieto di averlo fatto. Con qualcuna siamo ancora amici adesso, che da 40-20 siamo passati a 70-50, le ragazzine sono diventate signore e io sono diventato un vecchio. Ogni vita diversa, qualcuna si è sposata e ha figli, qualcuna è rimasta una sciamannata e sta bene.

Comunque la Posta mi piace a prescindere, non solo per rimorchiare insomma. Le lettere, ci stanno tante cose dentro, e pure sulla busta, se posso scelgo i francobolli adatti, i colori, tutto. Le Poste italiane funzionavano meglio, nonostante tutto. Beh, avevo amiche di penna anche in Francia, Spagna, Finlandia, Germania, Giappone e Stati Uniti a altri posti. La francese e la spagnola sono andato a trovarle, poi. La tedesca è venuta lei a trovare me.

In certe buche di città la levata della posta era sei o sette volte al giorno, l’ultima alle 21, sabato compreso. Spesso arrivavano il mattino dopo, almeno in certe località. Adesso è già tanto se le prendono una volta, a mezzogiorno, dal lunedì al venerdì. Ma è logico: un servizio che non si usa più tende a estinguersi.

L’elettronica certe cose non le può veicolare. Una ragazza incollava i francobolli con gli umori della sua fica. E poi le foto di carta, una foglia secca, oggettini personali. Materia, quasi carne.

Ma insomma adesso è così. Il virtuale va bene, anche, sono sempre parole e possono essere parole importanti, e anche le immagini e i suoni, insomma. Meglio però se dopo tre giorni ci si vede, come con Cristina. Se si può e se si vuole, certo.