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Confessioni di una mente runnerosa

di:

Come il primo appuntamento dal nuovo terapista.
Come una chiacchierata notturna dopo troppo gin.
Come quando da bambini scrivevamo sul diario segreto.
Con l’arrivo dei mesi più freddi, il runner ossesso gode.
E si confessa.

Ma cosa pensa una mente runnerosa quando corre?

“Pasta con le olive, che mi piace ma non mi va di cucinare.
Succo di frutta mango e pesca, che non lo posso bere.
Messaggi non inviati, che avrei parecchio da dire.
Messaggi inviati, che non ho niente da dire.

“Ma ho le calze giuste per correre?”.
Fa caldo, ma alla gola ho freddo.
Potessi non fermarmi…

“Comunque non ho le calze giuste” stavolta si formerà la vescica perfetta,
tonda, ferma, che non scoppia quando te l’aspetti,
ma quando ne avrai davvero bisogno.

Oggi la luce è perfetta.

Ma perché ho sognato quella macchia verde dietro la finestra?
Io ero dentro, lei era fuori.
Si muoveva furiosa perché voleva entrare,
era inquietante ma non mi inquietava:
io ero dentro e ero tranquilla.
È questo che mi preoccupa davvero:
fuori non si vedeva nulla,
il fuori era più minaccioso della macchia.
Fuori c’era la guerra,
ma io ero tranquilla,
dentro una casa di cui non ricordo le pareti,
ma l’aria grigia,
e azzurra,
e plumbea,
e metropolitana,
e pesante
ma attraversabile.
Anzi no: sondabile,
che ci si può entrare,
ma non è detto se ne possa uscire.
Una casa dove non è inverno, non è autunno,
non è primavera, non è estate,
ma non è un niente.
Piuttosto potrebbe essere tutto, un tutto, dappertutto.
Ma non per chiunque:
devi un attimo diventare plumbeo anche tu,
devi essere tutto e niente anche tu,
niente e tutto,
una palla.
Anzi no: un gomitolo,
che cerca di dipanarsi mantenendo il suo centro.
Quell’aria lì la capisce chi ce l’ha in testa,
e disorienta chi non ce l’ha.
Entrambe le reazioni hanno senso, per motivi diversi.

Ho sete.
Alla prossima fontana non mi fermo.
E non bevo.

Ché l’acqua magari è fredda,
e magari lo stomaco scoppia.
No, certo che non scoppia,§
ma è tutto esagerato,
mentre corri.

Ogni botta a terra vibra, dalla caviglia, al ginocchio, ai lombi, alla schiena:
se non regoli la falcata,
ti sbricioli.
Io me lo immagino così: uno scheletro che diventa talco,
talco profumato di ammorbidente, come il profumo dello scaldacollo.

Che poi perché l’ho indossato?
Fa caldo.
Ma non fa mai davvero caldo,
e non fa mai davvero freddo:
quando corri, sei tu che generi calore, ti riscaldi di energia propria.
D’inverno sei così caldo che emani fumo, evapori.
D’estate sei così caldo che scivoli.

Ma non è colpa dell’inverno e neanche dell’estate:
è sempre colpa tua,
che tendi a surriscaldarti troppo.

Chissà quand’ è che potrò non fermarmi mai:
Quando arrivo? Mai, fine corsa mai.
Dove mai significa che fra un passo mi sbriciolo e divento talco al profumo di lavanda.
Dove mai significa che quel passo in più è veramente troppo: meglio di no.

Però, dai, è troppo eccitante l’idea di farlo.
Ma fare cosa?
Farlo a chi?
Di sicuro a te.
E quindi a me.
Di sicuro mi devo tingere i capelli.

E di sicuro alla prossima fontana non mi fermo.
E non bevo.

Perché fermarsi alla prossima fontana significa fermarsi:
è solo un attimo, e ci vuole solo un altro attimo, a ripartire.
Ma a quel punto, addosso te ne senti seicento, di attimi.
Gli attimi ce l’hanno, questo vizio di dilatarsi e restringersi a caso.
Anzi, no: mica tanto a caso.

Ma comunque non bevo.
E non mi fermo.

Io mi voglio seccare.
Goccia dopo goccia.

Tutte le liste infinite di pensieri, liste ripetitive, schizzano con le gocce di sudore, si sciolgono sulla pelle.
Ecco perché mi ritrovo sempre piena di escoriazioni, sono le cicatrici che lasciano i pensieri che avevo messo in lista: quando entrano a contatto con la realtà del corpo, si sciolgono nella pelle,
e prima bruciano, e poi diventano croste.

Mentre corri non lo sai.
Anzi lo sai, ma non ci pensi davvero: vedi solo il pensiero scorrere e schizzare via da te,
con le altre gocce di pensieri.
Quindi, intanto, corro.

Quanto mi manca il punto in cui non si sente nulla?
Quanto mi manca al punto in cui non si sente nulla?

Lui è vicino,
ma si sposta sempre un po’.
È sempre un passo avanti a me.
Ma io diventerò il ritmo dei colpi sull’asfalto e non mi fermerò mai più.
Comunque non si corre sull’asfalto,
magari cambio rotta.

Metto i pantaloni cortissimi, scopro la pancia, sciolgo i capelli
e corro nel verde di qualcosa, quello di quando piove di brutto
ma tutto profuma di bagnato,
e la pelle è nera perché la pioggia è sporca,
e c’è la terra è sporca.
E tu sei sporca.
Ma almeno la terra è morbida,
e i tuoi lombi sono d’accordo,
si inarcano al solo pensiero.

Allora vai a correre lì, sì,
fatti venire la pelle d’oca.
Ma ci devi arrivare.
Prima c’è l’asfalto.
Lì ogni passo è una martellata,
e tu hai sempre la musica giusta: ogni botta alla batteria è una botta all’asfalto,
alla terra, alla strada che hai appena percorso,
e quella dietro si sbriciola
come farai tu,
quando farai quel passo.
E allora non ti fermerai più.

Da qualche parte, ovunque, qualcosa sta cambiando:
chi, cosa, tutto, tutti.

Quanto mi manca?
Chi, cosa, tutto, tutti.

Non lo so.
Voglio solo inseguirlo.
Prima o poi ti becco.

Però prima devo bere.
Ho deciso: alla prossima bevo,
tanto mi devo fermare un secondo,
un piccolo sorso: che sarà mai, bagnarsi le labbra un attimo.

Ma ho paura,
perché poi che una volta aperta la bocca, vorrò inghiottire più acqua possibile.
E scoppierò.
Ah no, lo stomaco non scoppia così facilmente.
Ma l’ho detto, quando corro esagero sempre un po’…

È chiaro che c’è qualcosa di esagerato in me,
e quindi in te,
che deve uscire.

Ma non qui.
Alla prossima fontana,
giuro che bevo.

Se la trovo,
se mi trova,
bevo.

Ma non mi fermo”.

Immagine di copertina di Mirko Iannicelli.