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Io aspetto il mare

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Una piccola pausa dalla consueta rubrica, per postare un racconto di come immagino il viaggio di un essere umano verso la ricerca di qualcosa che gli spetta per diritto: la libertà (sì, ho scritto essere umano, non “carico residuale” come l’attuale governo ha definito i migranti).

“Mi chiamo Eva. Questo è il nome che mi hanno dato. Hanno dovuto sceglierne uno perché quando mi hanno trovata non parlavo, non dicevo nulla. E quindi non ho detto nulla anche se non mi chiamo davvero Eva.

Qui non è tutto fermo. Dicono: “È tutto fermo, siamo fermi, la nave è bloccata” ma non è così.
Si muove tutto, mi muovo anche io. Siamo nello stesso punto da tante ore, è vero, ma non siamo fermi.
Tutto ondeggia: loro, noi, voi che state fermi sulla costa, e io, che ondeggio pure dentro. E infatti mi viene il vomito.
Ma io sono contenta di stare male: se sto male, vuol dire che sono viva.
Mi viene il vomito: sono viva.
Ho mal di testa: sono viva.
Ho dolore alla testa: sono viva.

Per tutto quello che è successo, io non sento dolore nel cuore ma nella testa, perché il mio cuore non riuscirebbe a sopportare tanto dolore ma la testa sì. Perché la testa ragiona e ha capito che non doveva accadere, così mi fa essere arrabbiata. Essere arrabbiati è il mio modo per non morire. Non un buon modo forse, ma è quello che ho a disposizione adesso.
Il mio cuore invece non ragiona, se capisse davvero cosa è successo scoppierebbe forte. Così ho deciso che il cuore deve stare fermo e il resto si può muovere. E tutto il resto infatti si muove: si muovono loro, ci muoviamo noi, vi muovete voi sulla costa, mi pare di vedervi.
Mi muovo io, ma senza il cuore.

All’inizio contavo le onde, per impegnare la mente, ma poi è arrivata la notte e non riuscivo a vederle bene.
Sentivo solo il rumore, ma il mi faceva paura perché dentro ci ho sentito le urla di chi ha smesso di muoversi perché è morto. E quando vedi morire qualcuno, il mare ti riporta indietro ogni respiro che aveva fatto, ogni pensiero, ogni battito di vita.
Ogni onda ti riporta un pezzo di vita e di corpi.
Il mare non dimentica nulla, conserva tutto, ripropone e noi abbiamo imparato a muoverci con lui, a galleggiare a largo.

Siamo fermi su questa nave, vicini alla costa, senza tornare indietro e senza andare avanti. Ci tengono qui perché non sanno cosa fare di noi. Non sappiamo se torneremo in Libia o scenderemo qui, su queste coste.
“Siamo in attesa” e “siamo fermi”, continuano a dire.
Sì, è vero, siamo praticamente fermi, ma per me solo chi muore si ferma davvero. Noi invece siamo vivi e allora io non lo voglio dire che sono ferma. Sono viva, siamo vivi.
E essere vivi qui, vuol dire stare male. Questa è l’unica cosa certa.
Per questo tutti vogliono scendere. Io no.
Io ho paura di smettere di galleggiare e mettere i piedi a terra, perché magari con i piedi a terra, dimentico quello che è successo e dimentico Jamila.

Jamila è un bel nome, è il nome di mia figlia.
Prima di partire per questo viaggio, le stavo proprio raccontando la storia di come avevo scelto quel nome, ma lei faceva sempre così tante domande, soprattutto quando era nervosa, e il mio racconto allora sembrava non finire più. “Ne parleremo una volta arrivate” le avevo detto, mentre le infilavo quello stupido, inutile, maglioncino rosso.
A lei non piaceva, perché era vecchio e puzzava di qualcosa, diceva.
Aveva ragione, io lo sapevo, ma era il primo che avevo trovato: avevamo fretta, non potevo stare lì a pensare a quell’odore.
“Il rosso ti può salvare la vita” le avevo detto.
Forse non si deve parlare così a una bambina. Una bambina non dovrebbe galleggiare a largo. Io non so bene il perché di questa ingiustizia, ma sono certa che una bambina non deve sapere che il rosso, anche quando è solo un maglioncino che puzza, ti può salvare la vita, perché se cadi in mare diventi più visibile a chi viene a salvarti.
Una bambina non deve saperlo, ma lei lo ha saputo. Volevo inventare una bugia, ma non le so più dire le bugie. Certi fatti sono così grandi e pesanti che si piazzano in mezzo alla tua vita e non ti lasciano spazio per inventare nulla. Così puoi solo dire la verità e io l’ho detta.
Lei non era contenta del maglioncino rosso, si è calmata solo quando ha visto che c’erano altri bambini che lo indossavano.
Così sembrava tranquilla quando siamo partite. Aveva anche smesso di stringermi forte la mano. Anche quando è arrivata la notte, ed eravamo sul gommone, in mezzo al mare, anche quando si sentiva puzza, come se tutti avessero lo stesso terribile maglioncino rosso.
Era tranquilla e non mi stringeva forte la mano, neanche quando abbiamo cominciato a imbarcare acqua. Non ha detto nulla.
Nulla, neanche poco prima che questa nave ci salvasse, quando lei mi è scivolata via: la sua mano non era stretta alla mia, Jamila era tranquilla.
Forse non aveva capito nulla di quello che stava succedendo.
Forse credeva davvero che il suo maglioncino rosso l’avrebbe salvata.
E allora lei era tranquilla, anche mentre annegava.

O forse sono io che sto ricostruendo così questa storia nella memoria, per non impazzire.

Non so la verità, non so neanche se ci sia davvero la verità.
Forse la verità me la racconterà il mare.
Quando mi riporterà la mia bambina, il suo stupido maglioncino o  una spiegazione che io potrò capire.

Anche una spiegazione non vera andrebbe bene, sarebbe qualcosa.
Io aspetto il mare. Non aspetto la costa, io.
Non voglio essere salvata, non voglio che nessuno venga a prendermi. Lasciatemi a galleggiare.
Io ormai ho il terrore della terraferma.”