di: Enrica Orlando
Immagine di copertina a cura di:
ALICE PIROCCHI, JASMINE ESCORIDO, RICCARDO ZUIN
3C Liceo Artistico “F.Arcangeli” di Bologna
——-
Una mattina perfetta, tecnicamente.
Non sono in un carcere, non sono prigioniero.
Sono libero.
Ma che vuol dire essere liberi?
Sono sveglio da 20 minuti e ho davanti a me due possibilità: aspettare che si svegli o svegliarlo io.
Ma se lo sveglio io, borbotterà per almeno 15 minuti.
E io detesto chi borbotta, mentre mangio.
Io detesto chi parla, mentre mangio.
Io detesto anche mangiare in compagnia.
Mangiare è un atto fisico, una risposta a un bisogno chimico.
A che serve trovare una ragione, una motivazione, un intento altro, dietro un gesto così semplice?
Apri la bocca, chiudi, mordi, ingoia. È solo questo. È semplice.
Ma le cose semplici sono difficili, fanno paura, perché non hanno bisogno di nient’ altro che non sia te stesso, il tuo corpo.
Vallo a spiegare a quei cervelli che viaggiano a mille, tipo il suo, che ha bisogno di apparecchiare, prenotare, indugiare, parlare, borbottare.
Sì, lui borbotta.
E io non ho nessuna intenzione di rovinarmi una mattina tecnicamente perfetta come questa.
Quindi, tra aspettare che si svegli o svegliarlo io, scelgo di aspettare.
Sono libero di scegliere: ho due possibilità e ho scelto.
Poter scegliere vuol dire essere liberi?
Scegliere il meno peggio, vuol dire essere libero di fare quello che voglio?
L’attesa mi sta incupendo, e già sembra una mattinata meno perfetta, tecnicamente.
Ma potenzialmente lo è ancora. Sono ancora in tempo per il mio appuntamento e c’è anche il sole.
Non che a me interessi il meteo.
A me non interessa. Io godo di una passeggiata al sole, come godo della pioggia ghiacciata che mi cade addosso, o di una distesa bianca di neve.
Per il piacere di pisciarci sopra, certo. Ma anche perché è morbida e pulita, prima di assorbire il mio piscio.
Tiralo fuori, piscia, sporca. Spera che nessuno pulisca.
Che nessuno faccia sparire del tutto la tua traccia. Sogna che almeno la annusi e si riconosca nello stesso piscio, nello stesso odore, nello stesso disegno fatto con un piscio diverso.
Mi piace sporcare le cose.
Mi pare il modo migliore per scoprire la loro vera essenza.
Apri la bocca, vomita, guarda quello che covavi dentro, guarda chi lo ingoia:
Perché lo fa?
E tu perché lo lasci fare?
La differenza sta tutta lì.
Mi piace vomitare sulle lenzuola bianche, ad esempio.
Le lenzuola fresche, pulite, che profumano e sono pronte ad accogliere la bruta e fumante verità delle mie viscere, lo scarto che il mio corpo non sopporta più.
Sono pulite per accogliere sporcizia.
Il bello è più bello accanto al brutto e il brutto è più brutto.
Il pulito è più pulito accanto allo sporco e lo sporco è più sporco.
Il più bello, il più brutto, il più pulito, il più sporco: sembra uno spaghetti Western ambientato in una lavanderia.
Ma credo che sia anche un buon modo di guardare alla vita: sono elementi che non hanno senso, lasciati a se stessi.
Devono accoppiarsi per annullarsi.
Accoppiarsi serve a questo: a annullarsi.
A sparire. O a riprodursi, certo.
Una sparizione prima di un ritrovamento, una morte prima di una nascita, una fine prima di un inizio. Ma è tutto temporaneo. Tutto corre, tutto cambia e se non ti dai una mossa, quello si accoppierà con qualcun altro.
Forse lo sta già facendo.
E a me sta bene. Io non mi credo libero di amare, se amore significa incatenarsi a un sentimento declinato in un solo senso, restare paralizzati: in due, ma soli.
A me non interessa con chi si accoppia lei, quando non si accoppia con me:
a me interessa lei, quando si accoppia con me.
È questa la libertà: avere il coraggio di farsi succhiare l’anima e succhiarne una, quando la trovi, per il tempo in cui vi siete trovati, per lasciare e conservare tracce.
Apri l’anima, succhia, sputa l’anima.
Per il tempo che il caso ti concede.
E di solito il caso a me concede giusto il tempo di una pisciatina al parco, quando lui si sveglia.
Quando, si sveglia.
Se, si sveglia.
Non è morto, ma non si sveglia.
Gli cagherò sul letto.
Se non si sveglia al mio tre, gli cagherò sul letto.
Uno, due, salto sul letto e…
“Piccolo bastardo” e scoreggia.
Sì, buongiorno anche a te.
“Che puzza, sei tu?”.
No sei tu.
“No, sono io”.
Già. E non ti ho neanche cagato sul letto.
“Mi faccio un caffè, una doccia e si va”.
Già, i rituali.
Questi sono i suoi rituali di post accoppiamento.
Ieri si è visto con la solita persona, che come lui ha deciso di non decidere.
E insieme pensano di essere liberi.
E lo sarebbero, se vivessero in un mondo che permettesse loro di non dover decidere sempre tutto, di non dover classificare, segnalare, infiocchettare, identificare chiaramente: questa cosa si chiama sesso senza amore, questa amore senza sesso, senza senso, senso senza amore.
Se solo fosse davvero possibile non esprimere necessariamente ogni cosa, per potersi sentire davvero liberi di esprimere tutto.
Come quando hai un foglio di carta bianca senza righe, quadri, bordi e lo puoi riempire in tutti i punti, da ogni lato, per ogni verso, perché avrà sempre un senso, che è quello che vuoi dargli tu e chi lo leggerà dopo di te. C’è qualcuno che capisce, anche se il foglio lo lasci bianco.
Non devi per forza scrivere tutto. Non devi sempre dire tutto, per definirti.
Puoi anche stare in silenzio: è tutto chiaro, per chi vuole ascoltare.
Apri la bocca, parla, chiudi la bocca, ascolta, ingoia.
Io faccio così.
Ma non è quello che stanno facendo loro due.
Di notte si dicono liberi di non decidere e di giorno si struggono.
Di notte si dicono in grado di accontentarsi di quello che passa il mare, ma si svegliano con la sensazione di essere a mani vuote.
“Pescano di notte e dormono di giorno”, così c’era scritto sotto quel quadro lì, della barca in riva al mare.
Ma stamattina, per 23 minuti, lui sarà in grado di non pensarci. Di accontentarsi.
20 minuti per farsi una doccia, 2 per bere un caffè, poco più di un minuto per farsi una sigaretta.
Sono le tre cose che fa sempre. Ma dopo l’accoppiamento le fa con un’aria diversa, che riempie con i capelli arruffati di chi per 23 minuti non pensa a nient’ altro, che non sia il fatto di aver fatto sesso.
Ha l’espressione distesa di chi non sta pensando né a quello che ha fatto la sera prima, né a quello che non farà stasera. Per adesso non sta pensando neanche al fatto che potrebbe non farlo mai più con lei, mai più con nessuno.
Magari muore adesso. O tra poco. Tra la doccia e il caffè e la sigaretta.
Ma non ci sta pensando.
Sta pensando al caffè che entra in bocca.
Apri la bocca, chiudi, ingoia.
Al fumo della sigaretta che entra e al fumo che esce.
Chiudi la bocca, inspira, apri la bocca, sputa.
All’acqua sulla pelle.
Chiudi la bocca, lascia scorrere l’acqua.
Lascia scorrere.
Io lo facevo sempre, prima di ritrovarmi legato a lui, ai suoi tempi, al suo guinzaglio, alla sua sveglia, ai suoi rituali.
Prima non ero costretto a queste attese che mi fanno pensare inutilmente.
Attese che mi fanno dimenticare chi è il cane e chi l’uomo.
Chi si perde in riflessioni e chi si gode la toelettatura mattutina.
Lui al momento è il cane che si gode la mattina post coito.
Io l’uomo impensierito.
Lei, chissà. Se ne è andata presto. Lui l’ha accompagnata alla porta e si è infilato di nuovo nel letto.
L’ha incontrata on line. L’ha convinta a uscire, chiedendo consiglio all’intelligenza artificiale, e lei si è innamorata.
Si è innamorata delle parole di una intelligenza artificiale, ovvero della somma delle parole che tutti gli uomini hanno provato o provano a dare, a chi si vogliono portare a letto.
Sì è innamorata della media delle parole.
Delle media degli uomini.
Si è innamorata della media.
Forse si è mediamente innamorata, magari della voglia di non innamorarsi ma di godere di qualcosa che corrisponde quanto più possibile all’immagine che ha dell’amore.
La macchina non esiste, allora: la macchina sono loro, gli uomini.
Gli uomini sono diventati macchine.
Fanno solo la media.
I cani sono diventati umani.
Gli uomini si sono persi.
Ma non lo sanno.
Lui, ad esempio, non lo sa.
I suoi 23 minuti zen post coito sono quasi finiti.
Sta già cambiando espressione.
Ha già guardato il cellulare 2 volte, indeciso se scrivere a lei o no.
Stasera forse chiederà all’intelligenza artificiale un consiglio su come rompere il ghiaccio, senza sembrare ridicolo o disperato: “Stavo pensando una cosa strana, ma sento che potresti capire: se potessi scegliere un qualunque posto dove vivere, cosa sceglieresti e perché?”
Mi fa quasi pena.
Quasi quasi non gli cago neanche sul letto.
Lo farò al parco.
Ci siamo.
Ecco, fatto.
Il tempo della sua seconda sigaretta e ho fatto.
Siamo al parco.
Eccola.
Ha un guinzaglio nuovo, e credo le abbiano pulito il pelo da poco.
La tipa che la trascina, leggendo qualcosa sul cellulare, non l’ho mai vista.
Deve essere una nuova dog sitter. Dai leggings che porta e dai capelli raccolti in quel modo, sono sicuro potrebbe essere la nuova avventura di lui, ma tanto avrà la testa ancora a ieri sera, a quello che già non è più e mai sarà, magari.
O magari no.
Quanta vita resta incastrata e fa la muffa in quella o.
Ma a me non importa.
Io apro la bocca, saluto, mi accoppio, saluto, chiudo la bocca.
E lei farà lo stesso.
Eccola che si avvicina.
“Ehi” dico
Scodinzola.
“Sei pronta?”
“Sì, ma dai, parliamo un po’?”
“Di che?”
“Mah, non so…”
“Non ti puoi accoppiare?”
“Ma sì, no, è che… non lo so, sai. Stavo pensando una cosa strana, ma sento che potresti capire: se potessi scegliere un qualunque posto dove vivere, cosa sceglieresti e perché?”
Merda.