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Morte, estate e passioni

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Rinvigorente come un ghiacciolo al limone, che mordi invece di leccare e quello ti paralizza il cervello per i tre secondi netti, necessari a resettare quel briciolo di entusiasmo che ti aveva suggerito l’estate.

Eccitante come una palpatina all’avocado del banco frutta, che sembra davvero quello giusto, finché non lo porti a casa e ti accorgi di aver preso l’ennesimo immaturo che sembra morbido fuori e invece ha un’anima di metallo dentro (sono sicura che il Marco “cuore di metallo senza l’anima” di Laura Pausini fosse, in realtà un avocado).

Sincera come la luce del sole in una spiaggia, che ti ricorda puntuale che no, la ceretta non ha strappato tutti i peli delle gambe, come ti suggeriva la penombra di casa tua, dove vivi appunto nell’oscurità, per evitare di morire di caldo.

Ecco che sorge la domanda estiva per eccellenza, tipica di quel mood che mi pervade alle 15 di una domenica di 40 gradi passata a fissare il ventilatore, come fosse la bocca della verità: cosa resta dopo la morte?

Lo so, lo so, suona un po’ tetra e non perfettamente in linea con il mood rilassante da cruciverba in spiaggia e aperitivo al tramonto sul lungomare.

Ma io faccio parte di quelli che si svegliano all’alba, per andare a correre anche il 15 di agosto. 

Significa che sudare via l’anima prima di un buon caffè è la mia idea di relax.

Vado in giro con gli integratori in gel nelle tasche.

Accetto la tipica abbronzatura da runner: croce bianca sulla schiena -causa bretelle del top sportivo; quadrato bianco sul braccio -causa porta cellulare con elastico che va appunto infilato al braccio; piedi bianchi, perché infilati nelle scarpe, e gambe più scure e costellate di punture di zanzare -”ma sì dai facciamo una corsetta vicino al fiume, entriamo a contatto con la natura”.

Ho una vescica al secondo dito del piede destro dal 2017. Sembra sparita e poi torna puntuale, dopo ogni corsa.

Voglio dire: pensare alla morte è una conseguenza quasi logica, vista la mia quotidianità.

E comunque, anche la quotidianità del resto del mondo non è che sia meno luttuosa. Questa estate ne è un fulgido esempio.

È morto Berlusconi, è morto Nuti, sono morti 600 migranti, è morto Cormac McCarthy, sono morti 5 milionari su un sottomarino che era diretto verso il relitto del Titanic. E certo saranno morte tante altre persone, di cui non sappiamo nulla.

E quindi cosa resta?  Chiaro, dipende da quello che hai fatto in vita.

Berlusconi lascia dietro di sé un paese ipocrita, oltre che fascista, maschilista e vecchio. Perché la sua non era passione per la fica, come a molti maschilisti inconsapevoli piace pensare e minimizzare; la sua non era passione politica, lo sanno pure quelli che dicono il contrario; la sua non era neanche passione per il denaro o il potere, quanto più dipendenza e necessità. Forse la sua era passione per la bella vita. Dove per bella vita, intendo proprio quello che alla gente piace definire bella vita “cene, sesso, potere, soldi, barzellette, vestiti blu, amici potenti” tutto quello che fa immagine e prescinde dai sentimenti.

E infatti la sua morte ha generato un circo mediatico di ipocrisia quasi unanime tra le istituzioni

È morto Nuti. Molti hanno detto “è morto nel silenzio, oscurato dalla morte di un personaggio tanto ingombrante quale era Berlusconi. È morto come era vissuto, da artista incompreso del tutto, forse sfortunato, di nicchia”.

Ed è tutto, chiaramente vero. Come è vero però, che il silenzio non è necessariamente una cosa negativa. È quella cosa che ti permette ad esempio, di sentire meglio le voci e di discernere l’autenticità, dai piagnistei di facciata. E la poetica di Nuti era così: autentica. Immagino che quindi, al di là di tutto, la sua morte ci lasci l’idea di cosa possa significare passione per quello che fai, al di là del pubblico che raggiungi, al di là della durata del tuo successo o del tuo stato di salute.

Sono morte circa 600 persone, che erano a bordo del peschereccio “Adriana”, naufragato a Pylos, nel sud del Peloponneso. Erano migranti.
Cosa resta? Oltre la colpa di questa parte di mondo incapace e più probabilmente disinteressata a salvarli? La passione per la vita. sembra un paradosso, certo, e lo è: morire cercando di salvarti la vita è un modo autentico di onorarla e mostrare quanto sia fugace, ingiusta, breve. Devi essere appassionato e disperato per sfidarla. La vita e la passione sono tragiche, esattamente come la morte.

Sempre in mare, sono morte altre 5 persone, in condizioni e per ragioni totalmente diverse: mi riferisco ai 5 passeggeri che si sono potuti permettere un biglietto di 250 mila euro per raggiungere il relitto del Titanic a bordo di un sommergibile. 

Io li capisco. E’ gente che ha un’altra percezione del denaro perché ne ha troppo e dunque non ha percezione della vita, o forse ne ha una che noi comuni pendolari, non possiamo comprendere. Tuttavia tra loro c’era comunque gente appassioanta, esploratori. Ognuno all’inseguimento estremo delle proprie ossessioni.

Cosa resta? Un gran senso di imbarazzo e grottesco, rispetto alla tragedia del Peloponneso. che serve comunque a ricordarci che la vita è così: grottesca.

È morto Cormac McCarthy, scrittore, drammaturgo sceneggiatore. Nel romanzo “La strada” scrive: “che differenza c’è tra ciò che non sarà mai e ciò che non è mai stato?”. Eh. Che differenza c’è? Forse la passione che hai profuso verso qualcosa che hai tentato di far esistere. A prescindere dal risultato. Quel sudore mentre corri, quella stretta allo stomaco quando pensi a quel bacio che non avresti voluto interrompere, quel silenzio che ti fa sentire inadeguato ma così poeticamente vero come Nuti, gli istanti in cui hai creduto di meritare di meglio o che valesse la pena provarci senza sapere perché la passione che è talmente viva e intensa da farti pensare alla morte.

La passione che sa di morte perché è piena di vita.

Come l’estate, i campi bruciati, il sole a picco, un corpo fermo che suda.

Illustrazione creata da intelligenza artificiale StableDiffusion